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Volare a 40 km/h con una Sertum 250 VL di nome Mina

Il giorno in cui ho deciso di guardare in quell’angolo buio del garage non immaginavo cosa sarebbe accaduto. Sapevo che c’era una vecchia motocicletta, dimenticata da decenni da tutta la famiglia e sepolta da mille cianfrusaglie. Sapevo che la usava mio padre, nei primi anni Settanta. Avevo visto delle fotografie dove era in giro con mia madre. La moto gli era stata regalata da un parente. Quando mio padre la ereditò era già una moto “vecchia” e la verniciò due volte a pennello, prima arancione e poi nera, per ammodernarla a suo piacimento, giustamente, visto che servì a conquistare mia madre. Raggiunto quel successo la moto finì sepolta in garage e tutti se ne dimenticarono. Poi un bel giorno, nel 2013, mi sono svegliata io e ho deciso di ridarle vita. Mio padre cercò di dissuadermi per varie e valide ragioni. Ma oramai ero già partita con la testa e con il cuore: quando ho riesumato di nascosto la Sertum dal garage è stato un colpo di fulmine. Ho pazientato 2 anni per rimetterla in strada, tra trovare una persona affidabile che ci mettesse le mani e rifare i documenti. Non mi sono mai scoraggiata, anzi, potrei dire che è filato tutto liscio come l’olio, considerando che la velocità media della mia motocicletta è 40 km/h.

Nel frattempo mi sono interessata alla storia della casa motociclistica, ho aperto il gruppo su Facebook “Moto Sertum” e mi si è aperto un mondo che nella mia esistenza ho sempre ignorato. Eppure c’era, era lì a portata di mano, come la mia Mina in garage.

Ogni giorno è stata una scoperta di nuove emozioni. E anche i momenti peggiori si sono rivelati una fortuna. Un giorno, rimanendo a piedi sotto casa, ho conosciuto Stefano Pracca, meccanico specializzato in qualsiasi tipo di mezzo d’epoca con 2, 3 e 4 ruote, grande amante delle Fiat Topolino. Era nel parmense in occasione dell’Asi MotoShow.
Stefano ed io siamo diventati amici e parlando abbiamo deciso che avrei scritto un libro sui Sertumisti e sugli appassionati di moto d’epoca, per raccontare le loro storie e avventure.
Se è vero che le motociclette sono mezzi per raggiungere emozioni inesplorate, io viaggio nel passato, a 40 km/h, a caccia di curiosità storiche e luoghi abbandonati, ma soprattutto alla ricerca di storie di motocicliste/i di mezzi d’epoca. Queste persone sono individui fuori dall’ordinario, colti di Storia, di fatti passati e di cultura sociale, arricchiti da esperienze individuali e familiari assolutamente uniche, dove le motociclette hanno avuto un ruolo fondamentale.
Questo patrimonio non può finire nel dimenticatoio, come ha rischiato di fare la mia Mina.

Stefano mi ha invitata a incontrare la Sertum Sei Giorni a Castiglione Torinese e due sertumisti di sua conoscenza, che vivono come lui in Piemonte. Per provare cosa significa davvero essere un sertumista e risultare credibile agli occhi di chi avrei incontrato dovevo presentarmi con Mina, non avevo scelta. Così ho studiato il percorso e da un giorno all’altro ho deciso di partire. Era la settimana prima di Ferragosto.

Ovviamente ignoravo che fosse il periodo peggiore dell’anno per far viaggiare una moto d’epoca e dovevo sperare che Sant’Iligio, Santo dei Meccanici, non fosse in ferie pure lui.

È stata un’esperienza incredibile, che ho avuto l’opportunità di raccontare su Motociclismo d’Epoca di aprile 2018. Contemporaneamente è nato il progetto editoriale The Sertumist, attivo su Facebook e su Instagram, dove condivido tutto quello che accade nel mio percorso da quando ho scoperto la felicità in sella a una moto fuori dal tempo.

Cos’ho imparato? Che a volte la felicità è nascosta in un luogo vicino a te, ma ignorato, come l’angolo del tuo garage. La passione muove la nostra vita, per tutto il resto non fatemi domande, soprattutto in tema di meccanica.

Benedetta Marazzi

“Matchless Tale” la storia di un grande marchio

La storia della Matchless è stata molto travagliata. Emoziona l’appassionato di motociclette britanniche perché è anche la storia, o meglio l’interessante racconto di altri due Marchi prestigiosi e blasonati di due ruote “made in England”: l’elegante AJS e la sportivissima Norton. La Matchless rappresentò, tra il 1899 ed il 1966, una delle più antiche Case motociclistiche britanniche, la cui sede ed il cui luogo di produzione erano a Plumstead, nei pressi di Londra. La prima moto realizzata dalla Matchless, quello che oggi chiameremmo prototipo, risaliva al 1899, mentre la produzione vera e propria iniziò nel 1901. Inizialmente e dopo la breve fabbricazione di biciclette, si vendettero, con il Marchio della “M” alata, le moto prodotte dalla Collier & Sons, società costituita da H.H. Collier e dai figli Henry e Charlie. Nel 1905 venne presentato un modello di motocicletta con motore bicilindrico a “V” di produzione JAP, dotato di uno dei primi sistemi di sospensione con forcellone oscillante.

DAGLI ALBORI ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Nel 1907, 1909 e 1910, in occasione del Tourist Trophy, la corsa più avventurosa disputata nell’Isola dei gatti senza coda, la Matchless conquistò, guidata da Charlie e Harry Collier, diverse vittorie che portarono il marchio alla ribalta. La produzione iniziale era concentrata su motociclette dotate di motore monocilindrico ma, in seguito, si passò alla realizzazione di modelli dotati di motore bicilindrico a “V” di 496 e 998 cc. Il primo motore Matchless fu invece realizzato solamente nel 1912. Durante la Prima Guerra mondiale la Matchless non ottenne contratti di fornitura, pertanto questa attività venne sospesa per poi riprendere nel 1919 con la produzione di un motore bicilindrico a “V” da utilizzare sui sidecars e la realizzazione delle motociclette riprese nel 1923. Tre anni dopo, H.H. Collier morì e, precisamente nel 1928, la Società si trasformò in una limited.

Il 1930 vide la presentazione di un motore, sempre bicilindrico a “V”, ma ad angolo stretto di 400 cc: tale propulsore venne denominato Silver Arrow e fu progettato proprio da Charlie Collier. L’anno successivo venne lanciato un inedito ed innovativo motore V4 da 593 cc, denominato Silver Hawk e progettato da Bert Collier. Questi era il fratello più piccolo dei Collier e non aveva un ruolo attivo nella società, ma espresse al meglio la sua passione per la meccanica e la progettazione. Sempre nel 1931 venne acquistata la AJS e, verso la fine del decennio, entrò nell’orbita Matchless anche la Sunbeam, che fu rivenduta alla BSA nel 1943. Proprio il 1938 fu l’anno durante il quale venne fondata la AMC (Associated Motor Cycle), società nella quale confluirono i marchi AJS e Matchless: successivamente si aggiungerà anche la Norton.
Due anni dopo, la Matchless introdusse un’innovativa forcella telescopica anteriore, detta Teledraulic (ispirata a quella delle BMW Motorrad). Durante la Seconda Guerra mondiale, la Ditta britannica produsse ben 80.000 motociclette per le forze armate, prevalentemente modelli “G3” e “G3L” (entrambe 350 cc, monocilindriche a valvole in testa). La “G3L” era dotata della forcella Teledraulic.

IL DOPOGUERRA E GLI ANNI CINQUANTA
Le prime moto prodotte dopo la fine delle ostilità furono: una 350 cc venduta, sia con il marchio AJS, che Matchless e la 500 cc monocilindrica “G80”. Quest’ultimo modello rappresentò il naturale sviluppo della “G3” destinata alle forze armate. Nel 1948 iniziò la produzione di modelli da competizione, sempre dotati di un propulsore monocilindrico, che portò alla ditta numerosi “allori”. Il primo motore bicilindrico parallelo venne costruito invece nel 1949, sul modello “G9” ed utilizzato anche sulle AJS: aveva una cilindrata di 500 cc che salì a 600 nel 1959 ed a 650 cc nel 1962.

In occasione delle competizioni disputatesi nel 1952, la Matchless presentò la “G45”, che montava un motore derivato dal “G9” 500 cc, potenziato (con testate che si rifacevano a quelle della AJS “7R”) ed inserito nel telaio della “7R”. La prima apparizione al pubblico della “G45” avvenne durante i lavori del Salone di Londra, a Earls Court, nel Novembre 1952, poco dopo aver vinto il Manx Grand Prix. La produzione in serie per i piloti privati iniziò dal 1953, ma non ebbe la competitività sperata. Nel 1958 venne introdotta nella gamma Matchless una moto da 250 cc, con motore monocilindrico (siglata “G2”, se marchiata Matchless e “Model 14”, se AJS). Dato il suo scarso successo, la “G45”, venne sostituita dalla “G50”, spinta da un monocilindrico monoalbero di 500 cc derivato da quello della AJS “7R”. La “G50” ebbe decisamente più fortuna nelle competizioni della sua antenata, riuscendo ad eguagliare la Norton Manx nel ruolo di miglior monocilindrica destinata ai piloti privati. Fra questi si ricordano per tenacia, bravura e coraggio: Alan Shepherd (secondo nella classifica finale della 500 nel 1962/1963), Jack Findlay (terzo nel 1966, secondo nel 1968) e Phil Read (terzo nel 1964).

GLI ANNI SESSANTA E LA BANCAROTTA
Nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, la gamma era articolata in otto modelli che furono ridotti a quattro nel 1965. L’avvento dei successivi anni Sessanta portò ad un netto peggioramento dei bilanci della Matchless tanto che, nel 1961, la Società accusò la perdita di oltre 350.000 Sterline. Per reagire a questa pesante situazione venne chiuso lo stabilimento Norton di Birmingham nel 1962 e si unificò la produzione delle moto Norton e Matchless; fu inoltre deciso di puntare sul marchio Norton per le moto bicilindriche e sui marchi Matchless e AJS per quelle monocilindriche. Tale strategia però ebbe scarso successo.
Venne introdotto anche il modello “G15” 750 cc, che sostituì il precedente modello “G12” 650 cc. La “G15” presentava miglioramenti al sistema di lubrificazione, al telaio ed alle sospensioni. Venne prodotta in tre versioni con il marchio Matchless: “G15 MK2”, “G15 GS” e “G15 CSR” e venduta come “Model 33” dalla AJS e come “N15 CS” dalla Norton. Tale modello rimase in produzione dal 1963 al 1969 e fu anche esportata, a partire dal 1965, fuori dai confini del Regno Unito.

Un’altra versione della Matchless, la “G85 CS”, presentata nel 1966, era dotata di un motore da 500 cc (quello della “G50” leggermente depotenziato), con un rapporto di compressione 12:1; la pompa dell’olio era ora di produzione Norton, che sostituiva il modello risalente agli anni Venti del ‘900; fu inoltre realizzato un nuovo sistema di lubrificazione, che migliorava la circolazione dell’olio a livello del pistone e della biella; il carburatore era un Amal “GP” di serie, che aiutava il propulsore ad erogare ben 41 CV a 6500 giri al minuto. Una caratteristica della “G85” si rinvenne nella difficoltà di avviamento dovuta, in parte al suo elevato rapporto di compressione e alla mancanza, come per quasi tutte le moto dell’epoca, dell’avviamento elettrico. L’ultimo modello di due ruote realizzato dalla AMC, prodotto a partire dal 1967, fu la “P11” 750 cc: utilizzava il telaio modificato della “G85 CS” sul quale era stata montata una forcella di dimensioni più generose oltre a svariate modifiche alla trasmissione primaria ed al sistema di lubrificazione. La gamma “P11” comprendeva 4 versioni ed era disponibile, sia con il marchio Norton, che Matchless. Nel 1968 venne interrotta la produzione della “G15”, le cui ultime versioni furono vendute anche l’anno successivo e venne presentata la “P11 A” e la “P11 A Ranger” .

L’anno successivo, al modello “P11 A Ranger” si aggiunse la “P11 Ranger” 750. Nella tarda primavera dello stesso anno si concluse anche la produzione della “P11”, ultima Matchless: una bellissima e prestazionale motocicletta che si rivelò, però, piuttosto costosa. Volendo giudicare le motociclette dalla “M” con le ali, si può affermare che si rivelarono eleganti e nello stesso tempo sportive, comode, affidabili, maneggevoli ed economiche: tali qualità però non furono sufficienti per mantenere un sufficiente livello di vendite, tanto da far peggiorare la situazione fino a quando, nel 1966, la AMC dichiarò bancarotta. L’Azienda fu acquistata dalla Manganes-Bronze, la quale formò un nuovo Gruppo che prese il nome di Norton-Villiers; di quest’ultimo, l’unico Marchio che riuscì a produrre interessanti utili fu Norton.
Rimarranno sempre nel cuore e nel garage di alcuni fortunati collezionisti, le Matchless: motociclette per le quali la rarità nel reperimento è direttamente proporzionale alla unicità della loro storia.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

La storia della Vespa 50 3/3: Vespa PK e trasmissione automatica

E’ la volta ora di quei modelli che possono definirsi unità appartenenti all’ultima generazione di “vere” Vespa 2 tempi. Le PK, nelle loro molteplici versioni, non hanno riscosso un grande successo e, conseguentemente, non sono riuscite a farsi ricordare come dei veri mezzi di interesse storico e collezionistico, pur avendo raggiunto l’età per esserlo. Sono comunque utili mezzi di locomozione cittadini.

STORIA E UN PO’ DI TECNICA
La Vespa 50 è nata nel 1963 e quella automatica nel 1987: varie sono le tappe evolutive, conosciute dalla Vespa nel corso della sua lunga carriera e longeva vita. La Vespa 50 rimane indubbiamente un veicolo metropolitano e, come tale, l’automatica è la più facile da condurre.
Subito dopo l’uscita di scena della ultima Vespa Special 50 cc viene presentata, durante il Salone di Colonia del 1982, la Vespa PK50, praticamente gemella della sorella maggiore PK 125 e cugina delle Vespa PX di più generose dimensioni.
Rispetto ai modelli precedenti, la PK si distingue per la nuova scocca caratterizzata da linee spigolose.

La posizione di guida è più confortevole viste le maggiori distanze tra il manubrio, la sella e la pedana poggiapiedi; i punti di saldatura non sono più in vista grazie ai bordi ruotati all’interno dei gusci scocca e del parafango anteriore; il manubrio, in lega leggera, presenta il corpo centrale amovibile per un facile accesso alla componentistica interna, mentre il guscio lato motore è dotato di uno sportello incernierato, completamente liscio e senza feritoie.
Oltre al modello base della PK 50 (V5X1T), è reperibile anche quello PK-S (V5X2T), più raffinato e comprendente, di serie, gli indicatori di direzione ed il bauletto portaoggetti dietro lo scudo.
Nel 1984 e per due anni, viene prodotta la versione automatica della PK 50, praticamente identica al modello base eccetto per la dotazione del cambio automatico. La leva di sinistra sul manubrio comanda il freno posteriore anziché la frizione, quindi la Vespa non è dotata del pedale sulla pedana di destra; ulteriore differenza rispetto al modello base si riscontra sugli sportelli ai lati dei gusci laterali, i quali presentano sei feritoie diagonali per lato ed il bauletto portaoggetti diventa di serie; il propulsore è differente da quello a marce perché caratterizzato dall’ammissione lamellare. Per il mercato estero vengono prodotte anche le versioni da 80 e 100 cc.

A partire dal 1985 le due versioni vengono chiamate rispettivamente XL (V5X3T) e XLS (V5S2T) e presentano alcuni aggiornamenti estetici, riguardo al frontale ed alla sella, proprio per rimediare all’insuccesso delle vendite dei modelli precedenti.
La linea è più fluida, ma lo scooter rimane comunque scoordinato nella parte sottosella e per lo spigoloso fanalino posteriore; viene inoltre dotata di borchie copricerchi che non piacciono molto. Tra i miglioramenti tecnici vi è la sostituzione delle puntine del volano magnete con un’aggiornata accensione elettronica; la strumentazione è più completa e comprende l’indicatore del livello del carburante.
Dal 1987 la Vespa PK 50 S Automatica (VA51T) si evolve nella versione Plurimatic (VA52T), alla quale vengono apportati solo piccoli aggiornamenti estetici. Dedicata ai quattordicenni i quali però sembrano non apprezzarla a dovere, la Plurimatic, dotata di trasmissione automatica, funziona notevolmente bene.

Durante il corso dello stesso anno, la PK 50 XL Rush viene prodotta approfittando della nuova normativa che elimina il vincolo della potenza legata al valore massimo di 1.5 CV. Lo spunto da fermo diventa quindi più interessante e la novità tecnica di maggior rilievo è rappresentata dalla sospensione anteriore antiaffondamento. Il propulsore ha un carattere decisamente brioso avendo a disposizione il 46% in più della potenza. Questa volta il pubblico di adolescenti si dimostra molto soddisfatto. L’estetica però continua a non piacere, soprattutto per la vistosa porzione del sottosella e le svariate finiture nere.

Nel 1989 viene presentata la nuova Vespa 50 PK, la “N” (V5X5T), con cambio a tre rapporti e caratterizzata da una linea più slanciata rispetto ai precedenti modelli, oltre che dalla camma apri-ganasce anteriore flottante, utile per dividere meglio lo sforzo del comando. La leva dello starter è sita tra la leva del freno anteriore e la manopola del gas, a differenza delle Vespa meno recenti; comodi ed estremamente funzionali si rivelano i comandi elettrici a destra ed a sinistra del manubrio, le leve e le manopole sono più anatomiche, mentre la strumentazione con fondo azzurro è completa rispetto agli altri “cinquantini” coevi e ben leggibile, ma due spie sono inutilizzate. Molto vistosa è la cornice che segue il perimetro dello strumento; la capacità del bauletto portaoggetti è stata ampliata del 20% e lo sportello si apre per mezzo della stessa chiave che aziona il bloccasterzo, l’accensione e la serratura della sella. Il propulsore è dotato di ammissione a valvola rotante ed ha il cilindro realizzato in ghisa.

Sempre nel 1989, viene prodotta anche la versione automatica della “N”, la Speedmatic (V5P1T). Le leve al manubrio sono sagomante in maniera anatomica e la manopola di sinistra ha due posizioni, una per il folle e l’altra per l’innesto della trasmissione: ruotando solamente la manopola si possono effettuare delle sgassate da fermo, utili alla “pulizia” del motore, senza impegnare la trasmissione. La versione automatica non è dotata, a differenza di quella manuale, della classica scatola per gli attrezzi sotto la sella.
Esteticamente la nuova 50 cc è riconoscibile per i fregi sui gusci laterali di color azzurro/verde, a forma di freccia. I motori delle due versioni sono completamente diversi tra loro: la manuale ha il cilindro in ghisa, la distribuzione rotante sulla spalla sinistra dell’albero motore, il carburatore è a ghigliottina ed il cambio a tre marce; la versione automatica, invece, è dotata di cilindro in lega leggera con canna al gilnisil, di distribuzione lamellare, di un carburatore a farfalla, di frizione e variatore a masse centrifughe con cinghia di gomma. Con le lamelle si migliora la coppia ai bassi regimi, con il carburatore a farfalla si ottiene, inoltre, una maggior prontezza di alimentazione.

La versione del 1989 è una delle più importanti, creata senza rinnegare i concetti base, originari (la monoscocca portante in lamiera stampata), ovvero quelli tuttora apprezzati per motivi di affidabilità, eleganza e praticità.
In occasione del Salone di Milano del 1991 viene presentata al pubblico la Vespa 50 PK FL2. Essa ha tutta la porzione superiore del manubrio ridisegnata ed una fisionomia morbida. Le pedane solo di colore nero, rivestite di materiale plastico su una maggiore superficie rispetto a quelle della precedente serie e la forma del bauletto dietro lo scudo è concava proprio per offrire uno spazio maggiore alle gambe del vespista.
Tale versione venne prodotta fino al 1996 ed è l’ultima Vespa 50 dotata di motore 2 tempi.
Come per tutte le altre PK, anche per la FL2 viene costruita una versione Speedmatic con cambio automatico identica alla versione base tranne che per l’assenza del pedale del freno posteriore e per la presenza di decalcomanie sui cofani posteriori ed ai lati del parafango anteriore.

TESTANDOLE
Nelle partenze da fermo le versioni manuali vantano una leggerissima supremazia, ma non è tutto merito loro: è “colpa” di quell’attimo di esitazione che ricorre in tutte le trasmissioni automatiche del tempo.
Le automatiche prendono comunque il sopravvento immediatamente, inserendosi nel traffico con grande scioltezza, mentre le manuali rimangono indietro, con il fastidio di manovrare il cambio: queste ultime, in compenso, restano le migliori nell’affrontare le più ripide salite.
Altra differenza tra le due versioni è riscontrabile nei loro consumi di carburante: il propulsore dell’automatica è più potente di quello della manuale, che si presenta un po’meno sobrio; per quanto riguarda la rumorosità di scarico, la più brillante automatica è più sonora, ma sempre entro i limiti civili.

Per il resto rimane tutto pressoché identico nelle due versioni: la frenata, decisamente sicura, lineare e senza reazioni sgradevoli e pericolose, la comoda posizione di guida, l’assenza di vibrazioni, fumosità e risonanze. L’innesto del motorino d’avviamento risulta però un po’ rumoroso.
Le versioni automatiche sono impareggiabili nell’uso urbano, mentre le manuali piacciono molto ai conservatori, vanno meglio in salita e consumano meno.
La famiglia delle PK, vuoi per la linea spigolosa, ben diversa da quella più arrotondata delle Vespa degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, vuoi per alcuni particolari estetici, non riscuoto il successo delle più anziane sorelle.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

La storia della Vespa 50 con la famosa versione “faro quadro” 2/3

Il secondo modello della storia Vespa fu presentato in occasione del 41º Salone del Ciclo e Motociclo di Milano del 1969, e rappresentava una piacevole novità per i quattordicenni e per chi voleva un mezzo versatile, leggero, di dimensioni contenute ed ottimo anche nel più intenso traffico cittadino.

LA STORIA
Il panorama delle tranquille, ma nello stesso tempo sportive Vespa Special, è composto da ben tre modelli: la prima serie tre marce del 1969, la coeva Elestart e la seconda serie quattro marce del 1975. Le tre versioni del celeberrimo “vespino” avevano in comune: la stessa filosofia accattivante, lo stesso senso di libertà per i minorenni derivato dal possesso e dall’utilizzo del proprio mezzo a due ruotine e la stessa fisionomia.
Il successo, durante il primo anno solare di commercializzazione, il 1970, arride alla Special 3 marce, la Vespa 50 dalle scritte in corsivo, tanto da registrare vendite di più di 32.000 unità. Ad ogni anno di produzione si introducono nuovi e brillanti colori e, la campagna pubblicitaria che sostiene il mercato, è mirata al modello solo in pochi casi, perché creata in un nuovo contesto anticonformista.
È il momento del: “Chi Vespa mangia le mele, chi non Vespa no”, oppure de “Le sardomobili si rubano il tempo: fa prima chi Vespa” e così via.

La meccanica della Special, rispetto alla Vespa “faro tondo” subisce qualche variazione, ma la gradevolissima estetica è decisamente più personale: la caratteristica principale è il nuovo manubrio squadrato con il faro, dalla cornice cromata ed il fanalino posteriore, entrambi di forma rettangolare, con la parte superiore in plastica grigia, ma si differenzia anche per l’aggiunta del copristerzo in materiale plastico dello stesso grigio della parte superiore del fanalino, che integra l’avvisatore acustico e rende più “importante” lo scudo (tali particolari sono, sul modello tre marce, di plastica nera).
Caratteristica comune delle Special, rispetto alle ultime “faro tondo”, è la sella con “gobbetta” posteriore, che dà loro un tocco di sportività, volendo imitare, anche se lontanamente, le selle sportive che si montano, come after market, sulle moto di media e grossa cilindrata.

Con la stessa carrozzeria e meccanica viene proposta anche la Vespa 50 Elestart, che si riconosce: per l’assenza della leva della messa in moto, per la presenza della chiave di contatto ed avviamento sul faro e per lo sportello presente anche sulla scocca sinistra, che cela il vano delle due batterie da 6V, collegate e necessarie al motorino d’avviamento elettrico. Alla ricarica della coppia di batterie provvede un dinamotore da 12V-70W.
La Elestart non incontra il favore del pubblico perché l’avviamento a pedale del modello normale è talmente agevole che ben pochi sentono la necessità di quello elettrico: per tale motivo, la Elestart, è molto più rara e quindi decisamente più ambita dai collezionisti.
L’ultima Vespa Special esce di scena nel 1983, lasciando il posto alla PK, incapace però di ripeterne il successo.

LA TECNICA
Dal punto di vista meccanico, l’unica novità della Special rispetto alle precedenti “N”, “L” ed “R” faro tondo, è rappresentata dall’adozione del carburatore con diffusore da 12 mm, in luogo di quello da 10 mm.
La scocca è portante in lamiera d’acciaio stampata e saldata, come per tutte le Vespa ed il motore, monocilindrico due tempi inclinato di 45°, con poche varianti di dettaglio, è lo stesso della prima Vespa 50 cc, la “N” del 1963. Il propulsore ha l’ammissione regolata dall’albero motore ed è dotato di raffreddamento ad aria forzata, di distribuzione a luci incrociate e pistone a cielo piatto. L’accensione è a volano-magnete 6V, con bobina A.T. esterna. La lubrificazione del motore è con miscela di benzina ed olio al 2%; l’alimentazione è affidata ad un carburatore Dell’Orto SHB 16/12, Il cambio è a comando a manopola, abbinato alla leva della frizione, sulla sinistra del manubrio; la frizione è a dischi multipli in bagno d’olio, la trasmissione primaria ad ingranaggi a denti elicoidali, mentre la secondaria è diretta alla ruota.

La sospensione anteriore è a levetta oscillante con molla elicoidale ed ammortizzatore idraulico a doppio effetto, ma è afflitta da un affondamento piuttosto violento nelle frenate brusche con il freno anteriore; la posteriore è formata dal gruppo motore oscillante con una molla biconica elicoidale e da un ammortizzatore idraulico a doppio effetto ed offre un comfort sufficiente.

Il sistema frenante vede, sia anteriormente, che posteriormente un tamburo centrale con alettatura radiale di rinforzo e raffreddamento. Le ruote sono a sbalzo, intercambiabili, con cerchioni scomponibili in lamiera stampata. Molto pratico è l’accesso alle puntine: attraverso la finestra sul volano, chiusa con un tappo di gomma. Frizione, cambio e trasmissione diretta primaria, sono lubrificati da 250 cc di olio SAE 30, da controllare ogni 4.000 km.
Per quanto riguarda la prima serie della Special, i cerchi rimangono da 9″, aperti e fissati ai tamburi auto ventilanti per mezzo di quattro viti a testa esagonale; i pneumatici misurano 2.75 pollici.

Sotto la scocca sinistra si può applicare un supporto che consente di inserire, in un pratico alloggiamento, la ruota di scorta. Tale supporto viene fissato al bullone della traversa del telaio e si prolunga posteriormente, attaccando un galletto ad una staffa montata all’interno della scocca posteriore. Ben pochi acquirenti usufruirono di tale accessorio, poco pubblicizzato dalla Piaggio e così ricercato attualmente. Sul piantone del telaio, dietro lo scudo, sono comunque presenti i due fori che servono a fissare la staffa di supporto per la ruota di scorta, caratteristica di tutte le Vespa a scocca stretta. L’unico vero limite della 50 Special può essere la mancanza di un vano portaoggetti con serratura, come quello di serie sulla coeva 125 Primavera.

Nel 1972, la Special 3 marce adotta cerchi da 10″, pneumatici da 3.00 e tamburi auto ventilanti in alluminio, proprio come la sorella di maggior cilindrata. La Special 4 marce, sempre con cerchi scomponibili ed intercambiabili da 10″, per facilitare lo smontaggio del copertone e della camera d’aria, ha i rapporti del cambio diversi dalla 3 marce: la quarta consente infatti un migliore sfruttamento del propulsore, soprattutto in accelerazione, sebbene le prestazioni rimangano fortemente penalizzate dalle normative del Codice della Strada all’epoca vigente.

TESTANDOLA…
La Special 4 marce, presentata nel 1975 e provata a Luglio 1981, ha grandi doti di: maneggevolezza, protezione dagli agenti atmosferici, affidabilità, assenza quasi totale di manutenzione e facilità di guida e di erogazione del piccolo monocilindrico due tempi; tra le considerazioni negative, principalmente: l’affondamento dell’avantreno in frenata con bloccaggio della ruota posteriore, il saltellamento del retrotreno, qualche vibrazione al massimo regime di rotazione ed una manovrabilità del cambio un po’ difficoltosa nella ricerca del folle da fermo e con un’escursione della manopola eccessivamente ampia.
La Vespa Special, prodotta in più di 760.000 esemplari, ancora oggi molto desiderata, è un vero evergreen, un cult che non ha tempo, sempre di moda, capace di suscitare la curiosità di moltissimi appassionati e di rappresentare l’oggetto del desiderio di tantissimi adolescenti: ciò le dona una popolarità ed un successo clamorosi.

Restate con noi, appuntamento tra due settimane con la terza puntata della storia della Vespa 50.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

Vespa 50 Story: “La Vespina Faro Tondo” 1/3

La nostra rubrica sulle retrospettive entra oggi nel fantastico mondo della Vespa, lo scooter più famoso al mondo, nato dalla matita dell’Ing. Corradino D’Ascanio nel lontano 1963.

LA STORIA
Nel 1959, l’introduzione del Nuovo Codice della Strada provoca un palese sconvolgimento del mercato delle due ruote nel nostro Paese: la possibilità di condurre un ciclomotore senza l’obbligo di targa né di patente ed a soli quattordici anni, si traduce in un fortissimo incremento della motorizzazione fra i più giovani centauri.
La prima Vespa (definita in gergo “vespina”) 50 cc “N”, ovvero Normale, nasce a Pontedera e viene esposta il 6 Ottobre del 1963 in occasione del Salone del Motociclo di Milano, affiancata dalla sorella maggiore di 90 cc ed è considerata storicamente l’ultimo progetto del valente suo ideatore, l’Ingegner Corradino D’Ascanio che, fino al 1965, lavora ancora per la Piaggio come consulente.
La Vespa 50 cc, se da un lato e nella maggior parte dei casi rappresenta il graditissimo premio donato dai genitori benestanti al loro figlio quattordicenne, magari in occasione della sua promozione scolastica, resta, dall’altro, la soluzione alla mobilità per chi non ha la patente o non può ancora permettersi un veicolo a due ruote targato o addirittura un’automobile.

Il piccolo scooter riscuote da subito un grande successo, tanto da essere vendute 5.960 unità solo nel 1963 al prezzo di 98.500 lire che, nel 1964, arriveranno a 54.385. Nel 1964 la Piaggio inizia comunque a pensare ai modi per migliorare la bella “vespina” e, come primo step, realizza una “sella lunga” che piace notevolmente di più, anche se non è permesso portare un secondo passeggero, essendo tutti i 50 cc omologati per il solo guidatore. Al verdino tenue della primissima versione si affiancano, a partire dalla primavera del 1964, altri due colori: il grigio “ametista” ed il rosso brillante pastello (codice Max Meyer 1.298.5847). Ultima modifica estetica è rappresentata dalla scritta “Vespa 50” sulla parte destra superiore dello scudo, che ora è di color argento.
Nel 1965 il piccolo scooter subisce altre modifiche, tra le quali l’ampiamento dello sportello d’accesso al motore: il carter di protezione assume infatti una forma leggermente più allungata.

L’anno successivo, alla versione “N” si affianca la “L” (Lusso), caratterizzata: dalla vernice metallizzata (azzurro, codice Max Meyer 1.268.7114, impiegato sui primi 30.932 esemplari prodotti), dal profilo in alluminio anticorodal allo scudo, dalla crestina sul parafango anteriore, dal gancio appendi-borse, dalla ghiera del faro in acciaio inox, da nuovi listelli in alluminio e puntalini sulla pedana. Le vendite procedono a gonfie vele e la “vespina” piace sempre di più.

LA TECNICA
La piccola ma robusta scocca della Vespa ha sempre avuto funzioni di telaio portante ed il suo motore presenta gustose novità tecniche: il cilindro inclinato di 45º; il carburatore posto davanti ad esso, che raggiunge il carter mediante un collettore appositamente sagomato; l’alimentazione è a disco rotante, con l’impiego di miscela al 2%; i cerchi e i pneumatici hanno l’insolita misura di 2.75-9: una scelta conforme alla necessità di tenere il più possibile compatto l’insieme del mezzo e ridurre l’altezza, da terra, dell’ampia sella monoposto.
L’accesso al piccolo motore è consentito da uno “sportellino piccolo”, che poi diventerà di più generose dimensioni nelle serie successive.

Le prestazioni della “vespina” sono forzatamente limitate dalle “imposizioni” del Codice della Strada, a 40 km/h di velocità massima. Questo è uno dei motivi per il quale moltissimi giovani mettono ancora oggi le mani sul piccolo motore per cercare di farlo lavorare meglio: limavano la testa, sostituivano il carburatore originale con uno più corposo e lucidavano le luci. In seguito molti preparatori, più o meno affidabili e professionali, progettano numerosi kit di potenziamento, fuorilegge, capaci di trasformare la tenera Vespa 50 in un piccolo e ruggente missile: il problema è farla fermare, non farla correre!

La meccanica della Vespa 50, nel 1964, rimane invariata essendo stata indovinata, già dall’inizio, per la sua proverbiale affidabilità. Il piccolo e tondo tachimetro contachilometri è molto preciso e rimane opzionale. Il blocchetto cromato dei comandi elettrici è sito sulla destra del manubrio e comprende: l’interruttore delle luci, il commutatore posizione/anabbagliante, il clacson ed il piccolo pulsante di massa per lo spegnimento del motore.
La Vespa “model year” 1965 subisce una modifica legata all’innesto delle marce, che da due passa a quattro griffe.
Nel 1966, oltre alle migliorie estetiche sopraindicate, a livello tecnico, si deve ricordare l’ammortizzatore anteriore idraulico a doppio effetto, utile al miglioramento del comfort di guida.

COME SI PRESENTA
L’insieme si presenta compatto e studiato proprio per offrire un peso contenuto ed una facilità di guida anche alle persone con corporatura più minuta.
La Vespa 50 ha una linea decisamente più moderna ed allo stesso tempo più classica, rispetto ai vari altri microscooters coevi. È capace inoltre di regalare al suo fortunato possessore ottime dosi di: praticità d’impiego, facilità di guida ed una economia di gestione manutentiva. È aggraziata, snella, armoniosa e totalmente proporzionata. Guidando la Vespa, dotata di ruote piccole, distribuzione dei pesi “tutto dietro” e motore laterale, bisogna porre attenzione alle frenate d’emergenza: è facilissimo far bloccare la ruota posteriore, con conseguente e facilmente incontrollabile sbandata.
La Vespa 50 cc offre un gradevole e sicuro riparo al pilota, che può permettersi anche di utilizzarla indossando un abbigliamento elegante, senza il timore di schizzi di fango o macchie di grasso.

Ribaltando la sella “Aquila Continentale”, si accede facilmente ad pratico vano porta-oggetti dove sono siti gli attrezzi in dotazione, insieme alla candela di riserva e l’olio per la miscela: esso può asportarsi per poter accedere comodamente al carburatore ed ai suoi cavi.
Un unico appunto degno di nota può farsi sulla funzionalità dei comandi, ovvero sull’eccessiva escursione della leva del cambio, che ha la terza marcia sita troppo in basso: ciò può compromettere la facilità di presa alle mani più piccole.
Un pieghevole pubblicitario della fine degli Anni Sessanta del secolo passato recitava: “Tutti conoscono la Vespa e tutti sanno distinguere la sua linea, la sua sobria ed inconfondibile eleganza; non tutti però sanno immaginare la perfezione dei congegni meccanici e della soluzioni tecniche di avanguardia che sono il segreto del suo grande successo. Soluzioni che hanno un nome: carrozzeria portante, trasmissione diretta, ruote intercambiabili” .

Autore: Pier Paolo Fraddosio

BMW R7, avveniristica, eclettica e bellissima

La storia dei mezzi a motore è ricca di veicoli memorabili che, purtroppo, non hanno mai visto la luce diventando reali, ma sono rimasti solamente uno schizzo di un designer o un progetto di un valente tecnico. A distanza di anni, però, capita che riemergano dagli “abissi” prototipi pre-produzione: è il caso della BMW R7, un modello progettato prima della Seconda Guerra Mondiale, rivoluzionario, innovativo e ricco di soluzioni tecniche d’avanguardia. Una motocicletta dagli illustri natali, blasonata, avveniristica, eclettica, dalla livrea elegantissima ed invidiabile. É stata costruita nel 1935 come prototipo e purtroppo, è rimasta a tale stadio a causa degli elevati costi di produzione. Oggi, come all’epoca, è di una bellezza sconvolgente e presenta soluzioni innovative ed all’avanguardia per gli anni ‘30 del secolo scorso.

Come dicevamo, l’R7 non fu mai commercializzata per via degli alti costi di produzione dovuti alla fondamentale tecnologia con la quale fu realizzata: la forcella telescopica, ad esempio, rappresentava un vero must: all’epoca fu adottata per la prima volta sulla BMW R12 del 1935, una motocicletta di serie. Nel 1934 Alfred Böning concepì la R7, realizzandone solamente due esemplari, uno dei quali è stato ritrovato nel 2005 in un garage, sotto una coltre di polvere, rovinosamente intaccato dal dannoso acido della batteria. Da allora, i tecnici di BMW Motorrad hanno lavorato scrupolosamente, avvalendosi della documentazione di Böning, perfettamente conservatasi negli anni, per riportare all’antico ed originale splendore l’attraente R7 rimasta in letargo forzato.

Il motore bicilindrico boxer a valvole in testa, 4 tempi raffreddato ad aria, dall’architettura rimasta pressoché invariata nel corso degli anni fino ai nostri giorni, ha una cilindrata di 750 cc, due valvole per cilindro ed è capace di erogare 35 CV a 5.000 giri e di raggiungere la velocità massima di 145 Km/h. Tale propulsore, già in uso sulla BMW R16, presenta delle soluzioni stilistiche innovative, di stampo decisamente futuristico. Il telaio è scatolato in lamiera stampata, ingloba il serbatoio e si sviluppa in un blocco unico, che va dalla testa delle forcelle fino alla ruota posteriore. Anche il propulsore completo è carenato e lascia in evidenza i soli cilindri, i copri-punterie dei quali sono totalmente lisce e di forma ovoidale. I freni sono a tamburo laterale, verniciati di nero lucido, stessa colorazione delle sovrastrutture della motocicletta e di cerchi e raggi.

L’arzigogolato disegno dei parafanghi e la scrupolosa dovizia di filetti e fasce bianche completano l’ardita sperimentazione, non solo di carattere estetico, ma anche squisitamente tecnico: il motore, infatti, è letteralmente appeso alla lamiera, senza alcun ulteriore fissaggio. La struttura, così concepita, non è però scevra da difetti e rappresenta il principale punto debole del veicolo, perché non è in grado di garantire un’efficace rigidità d’insieme. L’avviamento è a pedale, sito sulla sinistra della motocicletta ed il peso a vuoto della due ruote misura circa 178 Kg; sul lato destro della motocicletta, all’altezza del suo serbatoio, campeggia la leva manuale del cambio, completa di innesti scavati nella cromatura superiore. Il corposo, ma elegante insieme, viene sagacemente mitigato dalla piccola gemma posteriore e dai particolarissimi scarichi a coda di pesce, schiacciati e d’impronta molto moderna per l’epoca, che corrono lungo entrambi i lati del nobile motociclo.

Il risultato del durissimo restauro totale è senza ombra di dubbio pregevole: a distanza di svariati lustri, può essere infatti ammirata dagli appassionati di tutto il mondo come una motocicletta blasonata, in perfetto stile Decò, dalle linee pulite ed eleganti: la scocca, progettata per celare il propulsore, dona un’impronta aeronautica, rafforzata dal copioso uso di cromature ed acciaio. Poter salire in sella alla BMW R7 rappresenterebbe per i cultori del Marchio un traguardo non indifferente, capace di far “sbocciare” nei lori animi un’emozione difficile da descriversi.

Autore: Pier Paolo Fraddosio