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MOTO GUZZI LE MANS 1978

 VENDUTA in 20 GIORNI su CLASSIC DRIVE ART!!

€10700

Anno 1978

Targa e documenti originali

Marmitte Laranconi Competizione

Ammortizzatori Koni dell’epoca revisionati

Bello ed originale

N.B. Possibilita’ di avere la sella sportiva monoposto con leggero sovraprezzo

– See more at:

EMAIL: mauriziodotoli@yahoo.it

NOME: Maurizio

TELEFONO: 3339179938

REGIONE: CAMPANIA

MOTO GUZZI T3 CALIFORNIA 1980

€7500

Vendo Guzzi T3 California autentica, NO T3 trasformata. Targa oro FMI, moltissimi lavori di restauro /ricondizionamento. Telaio sabbiato e riverniciato, freni revisionati, tubazioni nuove, tutti i cuscinetti nuovi, frizione nuova, motore smontato e revisionato interamente, impianto elettrico nuovo, ammortizzatori nuovi, accensione nuova, cerchi con raggi nuovi e ricentrati… tanta roba e tanti soldi spesi! circa 26mila km originali.

EMAIL: s.caru@tin.it

NOME: Stefano

TELEFONO: 3474738817

REGIONE: ABRUZZO

Moto Guzzi – T3

€6000

La moto è iscritta FMI anno 1881 tutte le parti in gomma motore nuove frizione nuova tutti lavori effettuati da Mister Felix…..una grande moto.

EMAIL: SETTEROLEVANO@gmail.com

NOME: MARIO

TELEFONO: 3669320981

REGIONE: LAZIO

JAGUAR XJ6 1977

VENDUTA in 1 MESE su CLASSIC DRIVE ART!!

 

Jaguar XJ6 1977, targa e documenti originali AP, aria condizionata, cambio automatico, ottime condizioni.
Targa oro ASI e targa ACI CSAI.

EMAIL: magnirob53@gmail.com

NOME: Roberto Magni

TELEFONO: 3358443902

REGIONE: LAZIO

La gallery fotografica

Il video della Jaguar XJ6 del 1977

Honda CB500 Four – In medio stat virtus

La scintillante Honda CB 500 Four comparve sul mercato nella primavera del 1971 e fu subito esportata in tutta Europa e negli U.S.A. dove ebbe molto successo: gli statunitensi, infatti, ne apprezzavano molto le copiose cromature che ricordavano loro le Harley-Davidson, ma a differenza di queste, le Honda CB 500 erano dotate di un’innata leggiadria ed eleganza, che alle motociclette di Milwaukee decisamente mancavano.
La nuova pluricilindrica nata della “famiglia Four” non voleva essere una copia in piccolo della veloce e potente sua sorella maggiore, la riuscitissima CB 750 Four, quanto invece una motocicletta completamente nuova, diversa dalla 750 tranne che per il numero dei cilindri e per il gentil sibilo del motore.

Dotata di soluzioni tecniche sofisticate che le regalavano comfort, prestazioni elevate rispetto alla cilindrata, una guidabilità ottima e una buona frenata, la bella 500 Four era molto classica, curata fin nei minimi dettagli ed apprezzata per la sua linea compatta e fluida, che suscitava molto interesse soprattutto tra i giovani rampolli di famiglie benestanti: ciò sicuramente bastava a compensare la differenza di prestazioni rispetto ai “maxi-mostri”, come venivano chiamate allora le moto veloci e potenti, due tempi e di pari cilindrata.
Tutta la moto era stata costruita attorno al motore, che all’epoca sembrava, insieme con quello della maggiore di casa Four, un’astronave per la sua forma nuova, per le copiose cromature ed inoltre perché era dotato di un’impostazione mai vista prima. Le finiture potevano dirsi perfette, nulla stonava, tutto era eccezionalmente proporzionato al grado di eleganza ed alla grandezza della moto. La stessa era dotata di uno straordinario equilibrio, senza alcuna pecca di rilievo. Riuscivano a balzare immediatamente alla vista solo due organi di questo corpo così curato: l’ampio e comodo sellone e il parafango posteriore largo, cromato e che, a richiesta, poteva esser dotato di un pratico paraspruzzi in plastica nera. Queste erano le parti più solide, oltre al propulsore, presenti sulla 500: una delle prime motociclette sulle quali la ricca dotazione era completata da un comodo lucchetto a scatto della sella, che si apriva con la stessa chiave dell’avviamento; dagli indicatori di direzione rarissimi, all’epoca, sulle altre moto di media e piccola cilindrata e da un praticissimo cruscottino, sito tra i due cavallotti di sterzo, sul quale facevano bella mostra quattro grandi e visibilissime spie luminose e colorate: quella degli abbaglianti, dell’olio, del folle e delle luci.

La manopola dell’acceleratore aveva un doppio cavo che serviva a comandare sia in apertura che in chiusura di gas quattro carburatori Keihin 627 B da 22 mm con galleggiante in resina inaffondabile, ognuno dei quali serviva un cilindro da 125 cc. I cilindri, a differenza della maxi-Honda dovevano, nella CB 500, dissipare sicuramente molto meno calore e proprio per tale motivo, le alette di raffreddamento erano più rade; la testa degli stessi si presentava chiaramente diversa da quella della CB 750 e ridotta nella sua mutata forma.
Il telaio era verniciato di nero, in tubi da 25,5 mm, irrobustito ed irrigidito dall’aggiunta di parti in lamiera stampata; la sua caratteristica di innata robustezza era comune alla “sorellona”, dotata anch’essa di uno “scheletro” che poteva esser paragonato ad una roccia per quanto si rivelava forte nelle situazioni più estreme.
Il motore era un quattro cilindri in linea inclinati di 4° sulla verticale, che erogava 50 cavalli a 9.000 giri/min; la distribuzione bialbero in testa era comandata da catena semplice centrale. Una grande differenza rispetto alla 750 cc fu, ancora, l’abolizione del serbatoio separato dell’olio, quindi l’adozione di un carter molto più alettato. L’albero a camme si muoveva su quattro supporti ricavati nella stessa fusione della testa, soluzione alquanto innovativa, che non faceva andar incontro a nessun tipo di inconveniente a patto che la lubrificazione fosse sempre corretta. Le valvole erano meno inclinate di quelle sia della sorella maggiore che della 450 cc, infatti nella nuova 500 cc, l’inclinazione di esse misurava 53°; i trafilaggi di olio erano fortunatamente quasi inesistenti.

La forcella era inclinata a 26°, uno di meno della 750, mentre l’avancorsa non fu ridotta e gli steli della forcella si presentavano in posizione più avanzata rispetto al cannotto di sterzo.
Il motore era allocato alquanto in alto nel telaio, ma gli ingegneri nipponici riuscirono a progettare quest’ultimo, considerando anche l’ingombro della distribuzione in testa, rendendolo compatto tanto in lunghezza (l’interasse misura 1 metro e 40 cm. circa), quanto in altezza. Elasticità: questa era la più importante peculiarità del propulsore: la ripresa, anche da bassissimi regimi era ottima per l’epoca ed addirittura, in quinta marcia, si poteva scendere alla “velocità” di 40 km/h senza avvertire strappi fastidiosi. La progressione tendeva alla perfezione ed il motore girava a quasi 10.000 giri. Il tiro della quadricilindrica però non era assolutamente paragonabile a quello di una Moto Guzzi “Nuovo Falcone”, tipico e sempiterno motociclo nazionale di fama mondiale. Intorno ai 3.500 giri il motore nipponico degenerava in una forte pigrizia, senza poter rispondere prontamente alle smanettate.

La catena di distribuzione era centrale con annesso tenditore automatico a lama d’acciaio, che aveva sostituito quello tradizionale a rotella con molla, dado e controdado; la trasmissione primaria, nella sorella 750 cc, era a catena doppia, mentre quella della prima 500 cc a catena tipo morse a sette elementi, che sicuramente garantiva un’intrinseca robustezza ed una piacevole silenziosità di funzionamento.
Il sibilo del motorino di avviamento e del motore, perché sempre di piacevole sibilo si tratta, erano decisamente gli stessi della 750 cc; l’avviamento, però, non rispondeva sempre ed immediatamente alla pressione dell’apposito pulsante sulla destra del manubrio: soprattutto a motore freddo era d’uopo insistere per qualche minuto con il parzializzatore dell’aria per poter ottenere un regolare funzionamento.
Il cambio era preciso e la prima marcia “entrava” in modo dolce, con un piccolo, praticamente impercettibile e quasi gustoso strappo finale. Gli intervalli delle marce erano decisamente regolari, senza alcun vuoto: ciò dava soddisfazione al pilota perché gli permetteva di arrivare progressivamente in accelerazione fino ai 100 km/h anche se, per raggiungere la velocità massima, bisognava che si fosse dotati di una generosa dose di pazienza. I rapporti erano parecchio lunghi ed ottimi per un uso non sportivo del mezzo. Detto in precedenza che qualunque rumore meccanico era simile o identico alla 750, un suono si differenziava: in quest’ultima infatti risultava molto meno acuto quello dello scarico.

Il freno anteriore, a comando idraulico, era fenomenale, rapportato chiaramente al tamburo posteriore e, rispetto a quello della 750, decisamente migliore: molto più morbido e con il grosso vantaggio di “mordere” forte anche a modeste velocità. Il freno posteriore a tamburo era brusco a freddo mentre, con l’uso, molto più rilassato e poco pronto, anche se tutto sommato era all’altezza della situazione. Pur impiegando i freni al massimo, questi non avevano alcun cedimento, sia nella guida cittadina che in quella prettamente sportiva. Fino al 1972, infatti, la Honda CB 500 era stata la moto con la migliore ed efficiente dotazione di freni sul mercato, in un’epoca nella quale proprio le giapponesi furono le prime ad esser dotate del freno a disco.

Era capace di regalare al fortunato centauro gradevoli sorprese tra le quali, ad esempio, la forma e la posizione del manubrio che gli permettevano di guidare la motocicletta anche ad alte velocità e di mantenere una postura raccolta con il busto verso il serbatoio, quindi molto aderente alla motocicletta.
Copiosa si presentava all’acquirente la dotazione degli attrezzi, contenuta in una vaschetta sotto la comoda sella: era completa ed il libretto uso e manutenzione risultava molto esauriente ma scritto in lingua inglese. Dietro la fiancatina di sinistra si trovavano invece ben protetti gli organi dell’impianto elettrico. Nel 1971 la bella Honda costava 1.119.000 Lire, immatricolazione esclusa.

Godibile nell’uso quotidiano, si dimostrava agile nel traffico urbano, tanto che sembrava una 125 cc, a differenza della CB 750 che risultava invece un po’ pesante nelle manovre cittadine e quindi meno agile. Il telaio della sorella minore era l’artefice nascosto di tutto ciò; la sua guida si poteva assaporare però anche nell’uso prettamente turistico, infatti, questa motocicletta si presentava maneggevolissima, leggera, tanto da potersi definire soffice, proprio dove la morbidezza era data soprattutto dalla sella e dalla forcella. Fuori città, quindi, su strade veloci e libere, si poteva facilmente far entrare in coppia il motore a 7.500 giri, abbondando nell’uso della frizione. Viaggiare in quinta a 9.000 giri significava superare i 180 km/h e questo per una 500 cc pesante poco più di 200 kg era un gran bel risultato. Riusciva ad affrontare i curvoni a oltre 150 all’ora senza che si presentassero ondeggiamenti, che obbligassero il centauro a tenere il busto più rialzato e dritto.

L’unico appunto degno negativamente di rilievo erano i consumi, infatti, l’elegante 500 dagli occhi a mandorla copriva una media di 13-14 km con un litro di benzina; diventava una più modesta, ma validissima alternativa alla più costosa, impegnativa e famosa Honda CB 750. Risultava leggera, bassa e maneggevole, tanto da poter essere cavalcata da motociclisti di statura media, quindi “domata” anche da una bella centaura, che riuscisse a puntare bene i piedi a terra; tale possibilità era estesa a pochissimi modelli di medio-alta cilindrata.
Alla prima serie era associata la sigla K1 e questa, negli anni successivi a quello della sua presentazione al pubblico, era rimasta tendenzialmente immutata: le uniche note di rilievo delle successive serie K2 e K3 si limitavano a modesti aggiornamenti principalmente estetici, come ad esempio: la forma degli strumenti, delle marmitte di scarico, degli indicatori di direzione, la differenza delle livree e l’aggiunta di un ulteriore attacco per il secondo freno a disco anteriore. L’ultima della fortunata serie era la CB 500 Four K, che avrebbe avuto cronologicamente la sigla K6, se la K4 e K5 fossero state però importate anche in Italia. La K fu la serie che assommava in sé più cambiamenti rispetto alle precedenti: le colorazioni, oltre al serbatoio, alla sella, agli strumenti, agli indicatori di direzione: anche la foggia e la dimensione delle marmitte erano mutati.
Ancora nuovi aggiornamenti condurranno ai modelli CB 550 Four e CB 650, che non riusciranno a mantenere lo stesso fascino delle precedenti e celeberrime “vere” Four e neanche a sopportare il confronto con le concorrenti di pari cilindrata. Purtroppo, ma è doveroso dirlo, con le K1, K2 e K3 si chiuse una vera e propria era, quella splendente delle prime e sempreverdi quadricilindriche Honda che, per di più, facevano venir in mente subito il mondo delle corse, le supersportive dell’ala dorata pilotate dal grande Hailwood, ma sempre dotate di quattro cilindri in linea, che con i loro quattro collettori cromati, finivano in altrettanti scarichi a tromba, quasi a voler sottolineare che da quei motori sarebbero sempre usciti, come fossero strumenti musicali, armoniosi suoni di vittorie.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

Kawasaki Z1 900 – L’indimenticabile Geisha

Settembre 1972, al Salone di Colonia arriva la Z1 900: la maxi più potente mai prodotta

La Z1 900 fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno, che portò gli appassionati delle moto dagli occhi a mandorla a preferire il fenomeno Kawasaki al posto di quello Honda, fino ad allora pressoché imbattuto, quanto a novità tecnologica e potenza. Quest’ultima ne rappresenterà la rivale storica, pur avendo una cilindrata più bassa.
I cavalli della nuovissima “astronave” quadricilindrica bialbero erano ben 82, associati ad un’ottima ciclistica. La sua fisionomia decisamente nuova, sportiva e nello stesso tempo elegante si mostrava filante grazie anche al suo particolare codino ed al terminale di scarico “quattro in quattro”. Fu prodotta in 115.000 unità, la maggior parte delle quali vendute negli U.S.A.

LA STORIA
Fino all’avvento della potente Z1, la Kawasaki era conosciuta ed apprezzata essenzialmente per la produzione di motociclette 2 tempi di piccola e media cilindrata, di buona potenza, ma di scarsa affidabilità ciclistica, visto che la 500 cc, ad esempio, è passata alla storia come: la “bara ambulante” o la “fabbrica delle vedove”.
Nell’autunno del 1968, dopo che la Casa di Tokyo rilevò la Meguro, una delle più antiche Case motociclistiche giapponesi specializzata nella costruzione di motori a 4 tempi e dopo che fu creato, all’interno dell’azienda, un gruppo di tecnici coordinato e diretto dal valente ingegner Gyoichi Inamura, cominciarono i lavori del nuovissimo progetto di una 4 cilindri 750 cc, che sarebbe servita a dare una “forte gomitata” alle maxi moto inglesi ed italiane, ma non riuscì a darla alla Honda, che la precedette in tempismo con la presentazione, al 14° Tokyo Motor Show, della Honda CB750.

Nel 1970 iniziarono i primi collaudi della nuova 900 prototipo, che riusciva a sfiorare i 225 Km/h con 95 CV di potenza. I modelli di serie, furono leggermente depotenziati rispetto al prototipo, proprio per garantire al pilota una maggior affidabilità di guida del mezzo: il celeberrimo “Testa nera”, infatti, era superato in potenza solamente dal suo stesso prototipo.
La Kawasaki Z1 900 è stata prodotta in 4 serie: la prima, del 1973, era conosciuta come “Testa nera” per la colorazione del motore ed era disponibile, o con livrea rosso/marrone metallizzato, o giallo canarino/marrone metallizzato; sui fianchetti, invece, era presente la scritta “Double Overhead Camshaft”; la seconda serie, 1974, aveva anche la spia dello stop all’interno del contagiri, il motore era di color alluminio e la grafica del serbatoio mutava, con strisce per tutta la sua lunghezza; la terza serie, 1975, era simile alla precedente, ma le scritte sui fianchetti erano più grandi, era proposta una nuova colorazione blu e marrone metallizzato ed il sistema di lubrificazione automatico per la catena di trasmissione finale venne eliminato, essendosi rivelato inutile in caso di pioggia; l’ultima serie, del 1976, venne dotata di serie del doppio disco anteriore, il motore depotenziato di 1 CV, per via dell’adozione dei carburatori da 26 mm, necessari per non oltrepassare i limiti dati dalle severe norme antinquinamento americane; la corona aveva 2 denti in meno ed i rapporti erano chiaramente allungati; le scritte presenti sui fianchetti indicavano solo il modello (Z 900), le spie di servizio della strumentazione diventavano verticali, il tappo del serbatoio venne dotato di serratura e le colorazioni furono incrementate da una nuova: verde e marrone scuro.

LA TECNICA
Il telaio era il classico doppia culla in tubi d’acciaio con rinforzi in lamiera stampata in prossimità del cannotto di sterzo e nella zona del perno del forcellone. Il basamento del motore, che riusciva a spingere la Z1 oltre il “muro” dei 200 Km/h, era sezionato orizzontalmente: il carter inferiore comprendeva il filtro e la pompa dell’olio. Il propulsore stesso era inoltre dotato del sistema “Positive Crankcase Ventilation” per il riciclo dei vapori dell’olio, che riduceva del 40% l’emissione dei gas tossici. I cilindri erano in lega leggera con canne riportate in ghisa, mentre le sedi delle valvole in metallo sinterizzato, proprio per utilizzare la benzina verde, già obbligatoria negli U.S.A. Dai primissimi anni Settanta del secolo passato, l’albero motore era composto da 9 parti e poggiava su 6 cuscinetti di banco. Per limitare l’ingombro trasversale del motore, i tecnici Kawasaki ricavarono l’ingranaggio della trasmissione primaria direttamente su uno dei volani dell’albero motore.

Quattro erano i carburatori, i classici Mikuni VM da 28 mm e l’avviamento elettrico o a pedale, la frizione multi disco in bagno d’olio ed il cambio a 5 rapporti con ingranaggi sempre in presa e comando sulla sinistra.
Il freno a disco anteriore era da 296 mm, dotato di pinza a singolo pistoncino, non proprio il massimo della funzionalità, ma poteva migliorarsi la sicurezza e la ciclistica della moto adottando un secondo disco come optional, che molte delle Case madri fornivano (come ad esempio il Kit che la Moto Guzzi forniva per la V7 Sport) per migliorare la frenata. Posteriormente la maxi Kawasaki aveva invece un tamburo monocamma da 200 mm.
Diversa era la misura dei cerchi e degli pneumatici: quello anteriore misurava 3,25×19″, mentre il posteriore 4,00×18″.
La linea aggressiva e slanciata, anche se il peso complessivo del mezzo misurava 230 kg, risultava molto elegante per via del parafango anteriore cromato e dalle varie altre cromature dei 4 collettori, degli scarichi e della minuteria.

COME SI COMPORTAVA
L’accattivante Z1 900, contrariamente alle precedenti 2 tempi Mach III e Mach IV, non deluse riguardo al suo comportamento dinamico: molto buone la stabilità e la tenuta di strada, toccava i 212 km/h effettivi ed era bruciante nella sua accelerazione sui 400 m: 12 secondi ed un decimo, la migliore mai realizzata prima da una moto di serie. Lasciava sbalorditi però la dolcezza del suo propulsore, la sua facilità di guida e la sua silenziosità. Senza contare l’estrema e rara comodità per una sport-turer.
Il suo bialbero era tetragono nel sopportare gli sforzi prolungati, la marcia cittadina, le tirate in pista ed il turismo in coppia a lungo raggio.
La distribuzione dei pesi e le quote di ciclistica erano di gran lunga migliori di quelle studiate per la Honda CB 750, tanto da permettere una maggiore maneggevolezza ed un’altrettanto maggiore precisione di traiettoria.

La vista frontale della moto metteva subito in evidenza il suo ampio manubrio “america”, che sicuramente non migliorava la guida alle alte velocità e l’ingombro del suo possente propulsore da quasi 1 litro. Antiestetici, ma obbligatori per la circolazione U.S.A., si presentavano gli indicatori di direzione anteriori e posteriori.
I piccoli difetti immancabili in una macchina costruita dall’uomo erano: la morbidezza delle sospensioni, comode per il turismo, ma non molto performanti per un uso prettamente sportivo: gli ammortizzatori posteriori, ad esempio, non erano all’altezza dei nostri Ceriani, Marzocchi o dei Girling; gli scarichi ed il cavalletto centrale toccavano irrimediabilmente se si esagerava nel piegare in curva; la frenata con un disco solo non era per nulla eccezionale. Quello che poteva gratificare invece uno “smanettone” dei primi anni Settanta dello scorso secolo erano gli pneumatici letteralmente “mangiati” dai moltissimi cavalli a sua disposizione, ma questa non era una nota da enumerarsi tra quelle positive per le sue tasche.

Il centauro è chinato sulla sua rombante moto dagli occhi a mandorla: è lei, la sua fedele Geisha dalla “Testa nera”, che lo ha sempre accompagnato ogni qualvolta un traguardo veniva tagliato, nella vita come nelle più importanti manifestazioni sportive.

Autore: Pier Paolo Fraddosio