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Norton Commando Fastback: una 750 davvero British

Il geniale Stefan Bauer nel 1967 realizzò un inedito modello di motocicletta di grossa cilindrata per rilanciare le vacillanti sorti del celeberrimo Marchio “made in England”, quando già la concorrenza italiana tedesca e nipponica, si faceva sempre più forte nel panorama motoristico dell’epoca. Il patron della Norton, Dennis Poore, non lasciò però il brillante Bauer da solo alle prese con quello che doveva rappresentare il progetto del rilancio del Marchio e gli affiancò due valenti personaggi già da tempo professionisti in casa Norton: lo stilista Bob Trigg ed il tecnico Bernard Hooper.

Nel 1967, però, Bauer lasciò la Norton e venne ingaggiato al suo posto Alex Issigonis, già noto progettista della graziosa Mini, famosissima utilitaria sportiva. Fu due anni dopo, invece, quando al nome Commando, venne aggiunto “Fastback”. I ruttori d’accensione vennero spostati davanti ai cilindri e comandati dall’estremità destra dell’asse a camme. Poco dopo, nel 1971, la Commando era presente sul mercato mondiale in ben 12.000 unità, moto che gravitavano per lo più negli States, in Europa e, chiaramente, in patria. La versione sportiva partecipò al Tourist Trophy, mentre in USA la si vedeva protagonista sulle piste di dirt-track.

Il telaio della interessante maxi inglese era decisamente inedito e razionale; era infatti caratterizzato da un robusto trave tubolare superiore e dalla doppia culla chiusa inferiore. Il suo motore era, invece, il classico bicilindrico anglosassone Atlas 750, derivato dal tipo “7” del 1948, ma inclinato in avanti di 20° per donare alla moto un aspetto ancor più dinamico, ridurne l’altezza ed abbassarne il baricentro di quel tanto che bastava per renderla molto più stabile. Il bicilindrico però soffriva sulle lunghe distanze agli alti regimi, tanto che le fastidiose, ma fisiologiche vibrazioni, causavano spesso trafilaggi di olio ed un pericoloso allentamento della bulloneria, che doveva essere controllata con molta frequenza.

Ciò che rendeva la Commando veramente innovativa ed originale era il sistema di montaggio del suo motore: l’Isolastic. Questa tecnologia permetteva di isolare appunto l’intera motocicletta dalle vibrazioni del suo propulsore. Grazie a tale ingegnoso meccanismo, venivano montati elasticamente sia il motore che il forcellone e più precisamente, gli attacchi elastici erano tre: due per il motore ed uno per il forcellone. Tutto ciò non creava problemi di allineamento, anzi, riusciva anche a donare lunga vita alla catena di trasmissione finale. Chiaramente, per farlo “rendere” al meglio, le cure da fornire all’Isolastic dovevano essere rigorose e periodiche, come doverose dovevano essere anche quelle per il potente propulsore. Sempre contro le vibrazioni, venivano aggiunti dei fermi alle ghiere dei collettori, mentre i silenziatori erano montati elasticamente e, al telaio, avvitate, con l’interposizione di tamponi di gomma in unico pezzo, le piastre portapedane in alluminio.

Riguardo al telaio, è molto importante, per chi volesse acquistare una Commando, controllare sempre la corrispondenza e quindi la coincidenza dei suoi numeri con quelli del motore.
I carburatori Amal Concentric 930 rappresentavano i punti deboli della Commando: questi, infatti, trasudavano regolarmente e spesso vedevano una precoce usura delle parti interne. Inoltre, per l’avviamento a freddo si doveva “cicchettare” abbondantemente fino allo straripamento della benzina.

I freni erano entrambi a tamburo: l’anteriore, centrale, era dotato di doppia camma da 203 mm con comando a cavo singolo e registro a vite. Era inoltre caratterizzato dalla presa di ventilazione e da tre fori di fuga, che potevano essere chiusi da placchette metalliche. L’efficacia della frenata era limitata, in relazione alle prestazioni della moto. Il freno posteriore era invece da 177,5 mm a tamburo laterale, aveva la presa di movimento per il tachimetro ed il suo scarsissimo potere frenante era compensato dall’ottimo freno motore. La forcella Roadholder a doppio effetto, mantenne i soffietti fino al 1971; mentre, le sospensioni posteriori Girling con precarico della molla regolabili su tre posizioni erano cromate e molto efficaci. La leva del cambio e quella del freno erano site in posizione comoda e risultavano molto naturali da azionare, mentre le pedane erano piuttosto arretrate, caratteristica di estrema sportività per una motocicletta dell’epoca.

Con la Fastback MK II, sono poi stati adottati i terminali rialzati delle marmitte con uscita a doppio cono, dal sound inconfondibile e dall’ottima resa. La proverbiale snellezza delle maxi inglesi si evinceva facilmente osservandole frontalmente, mentre, l’unico neo estetico ad inficiare la loro silhouette era il portatarga originale, di gran lunga più largo della targa stessa. Nella precisa e sportiva strumentazione Smiths non poteva mancare l’amperometro sul dorso cromato del faro, insieme all’interruttore ed alla spia dell’abbagliante. I comandi elettrici al manubrio erano invece gli ormai introvabili Wipac Triconsul, montati fino al 1971, successivamente sostituiti con i classici Lucas.

I due pomelli tondi e piatti, presenti subito sopra i molloni delle sospensioni posteriori, servivano per smontare rapidamente la sella, sotto la quale si trovavano la batteria, il tappo del serbatoio dell’olio, l’impedenza del regolatore di tensione montato elasticamente e, nel vano ricavato all’interno della coda, si trovavano la completa dotazione dei ferri adatti ad una bulloneria in pollici, caratteristica comune a tutte le moto inglesi.

La bruciante Fastback (posteriore veloce), aveva una fisionomia innovativa per gli anni Sessanta ed era dotata di due originalissimi particolari: il codino dritto, che le donava un tocco di grande sportività, rivoluzionando l’estetica delle corsaiole dello stesso periodo e la sella, che imbottiva lateralmente la parte finale del lucido serbatoio, regalava al fortunato centauro un assetto di guida comodo e sicuro, per poter affrontare, con estrema disinvoltura, qualsiasi percorso. Le sue brucianti accelerazioni… e la sua “voce”, ai molti appassionati ricordano gli scatti di un leone ed il suo potente ruggito! E chi l’ha avuta, ha questa immagine ancora stampata nella memoria!

Autore: Pier Paolo Fraddosio

La storia delle Moto Guzzi V7: la mitica V7 Sport e la 850

1971: LA V7 SPORT – 750 S (1974) – 750 S3 (1975)
Una pubblicità dell’epoca recitava: 200 Kg, 200 Km/h! . Già, la Sport , come anche le sue derivate 750S ed S3 , pesavano 205 Kg e raggiungevano l’invidiabile velocità massima di 208 Km/h. E’ nel 1971 che sulla scena apparì una delle più belle, robuste e prestazionali motociclette sportive: la V7 Sport , concepita e realizzata dall’ingegner Lino Tonti, progettista del telaio assai prestazionale, denominato bassotto per via della sua minima altezza da terra, del baricentro basso, e della sua forma allungata. Esclusivamente nel 1971 la Sport venne progettata e costruita a mano dal Reparto Esperienze con telaio verniciato di rosso in cromo-molibdeno, in serie limitata: solamente 150 pezzi. Dal 1972, invece, non venne più costruita a mano, ma in serie ed il telaio divenne nero con tubi d’acciaio normalizzato. 72 CV a 7.000 giri/min vantava la Sport, aveva chiaramente lo stesso propulsore a V di 90°, ma questa volta di cilindrata 748,4 cc, con le classiche valvole in testa; la distribuzione ad aste e bilancieri; cilindri in alluminio cromati e due possenti carburatori Dell’Orto VHB da 30 mm.

Il telaio progettato da Tonti era diverso da quello delle sorelle V7 700 e V7 Special perché era sicuramente più schiacciato, sempre a doppia culla, ora non più chiusa, ma con elementi smontabili, proprio per aver più facilità nello smontaggio del motore. La sospensione anteriore era teleidrauica e gli ammortizzatori posteriori i famosi Koni. Il cambio a cinque rapporti si trovava sulla destra ed era a leva singola, con la prima in alto. Nota dolente, forse l’unica di questa superba motocicletta era la frenata: i grandi tamburi da 220 mm non bastavano, spesso, ad assicurare al centauro una buona dose di sicurezza nelle frenate improvvise, pur essendo dotati di quattro ganasce autoavvolgenti.

Un cenno va sicuramente dedicato ad altri due modelli di prestigio derivati direttamente dalla Sport : la 750 S e la sua sorella più piccola S3. La S vide la luce nel 1974 come evoluzione della Sport, della quale ereditò il telaio, il gruppo motore e cambio, la trasmissione, le ruote, gli ammortizzatori, ma non la verniciatura: aveva, infatti, la livrea nera con bande verdi, arancioni o rosse sul serbatoio e sui fianchetti laterali; il disegno della sella passò dalla classica due posti ad una da un posto e mezzo, di forma particolare, ma sicuramente più sportiva. Non assomigliò, per fortuna, alla sua parente stretta solo per quanto riguarda la frenata: erano infatti scomparsi i freni anteriori a tamburo per lasciare il posto ad un doppio freno a disco, sicuramente più efficace. C’è però da aggiungere che, durante la produzione della Sport, la Moto Guzzi, per accontentare i centauri più esigenti, offrì, a richiesta, un kit after market fabbricato in collaborazone con la Brembo e composto da un doppio freno a disco, che, successivamente, sulla S e sulla S3 fu montato di serie.

La S3 venne presentata nel 1975, nata durante la direzione De Tomaso e nell’ambito della cooperazione del gruppo Benelli-Guzzi. Era bella, ma nient’altro che una S, equipaggiata con la strumentazione e i gruppi ottici già utilizzati per tutti i modelli Benelli-Guzzi. Di un’importante innovazione dal punto di vista tecnico venne dotata, però, come anche la T3 e la Idroconvert : il sistema di frenata integrale a triplo disco, brevettato dalla Moto Guzzi. Furono inoltre eliminati: l’esclusivo manubrio in due pezzi regolabile in altezza montato sulla Sport e sulla S, sostituito da semimanubri e le cassette porta-attrezzi, sostituite da semplici copri-batteria. La modifica all’impianto frenate era ottima per la guida turistica, ma inibiva sicuramente l’uso sportivo della moto; fu inoltre pesantemente criticata dalla clientela. La produzione cessò nel 1976, dopo aver totalizzato 981 esemplari.

1972: LA V7 850 GT – 850 T (1974) – 850 T3 (1975)
La vera maxi-moto italiana da granturismo anni ’70 è sicuramente stata la Moto Guzzi V7 850 GT , presentata nel 1972 e rimasta in produzione fino al 1974. Era stata costruita per sostituire, migliorare e senza dubbio svecchiare la Special. La GT si presentava, infatti, con livree dal rosso al nero, al verde, tutti metallizzati e vivaci, insieme con parafanghi cromati e gli stessi freni a tamburo del V7 Sport . La sella era una poltrona a due posti, da vera granturismo. Per rispondere alla provocazioni di modernità lanciate dalle sfavillanti moto nipponiche, in particolare delle Honda CB Four, la GT, per prima, venne dotata anche di frecce. I cerchi Borrani da 18″ erano gli stessi della Special e della Sport , ma a differenza di quest’ultima, la GT era molto più pesante (249 Kg in ordine di marcia) e, per tale motivo, i freni a tamburo da 220 doppia ganascia doppio lato erano insufficienti ad arrestare il suo avanzare veloce. Il cambio era questa volta a cinque rapporti dei quali l’ultimo in particolare permetteva a questa elegante motocicletta di far godere al centauro ed al passeggero un comfort senza pari. Il propulsore erogava 64 CV a 6.500 giri/min; il telaio era come quello della Special a doppia culla continua in tubi.

Un particolare allestimento della GT era la quello California, la cui livrea era nera con adesivi bianchi e si differenziava dalla GT: per la sella, che in tale allestimento diventava un generosissimo sellone unico, che richiamava quello della statunitense Harley-Davidson, nero con i bordi bianchi; la strumentazione diventava quindi mono strumento con spie esterne; infine era differente il manubrio, che sulla California era molto largo, a forma di corna di bue. Quelli che erano accessori per la V7 700, per la Special e per la GT, diventavano di serie per la California, ovvero: paracolpi posteriori, borse laterali, questa volta in plastica leggermente più grandi e parabrezza molto ampio, con attacchi cromati direttamente sugli steli della forcella anteriore. Nel 1974, stesso anno della presentazione al pubblico della 750 S, fu prodotta la prima 850 T, una moto dotata dello stesso telaio Tonti che permetteva alla V7 sportive di avere un’ottima stabilità in curva anche a velocità elevate. Era sicuramente meno imponente delle sorelle maggiori Special e GT soprattutto per via della sua mole, pur essendo anch’essa una moto da turismo: si presentava infatti più slanciata, ma sicuramente meno affascinante delle V7 dotate di dinamo. La T, come la Sport, la S, e la S3, aveva un alternatore sito nella parte anteriore del propulsore, dietro al parafango anteriore. Era essenzialmente una motocicletta più simile alle nipponiche quanto ad agilità; aveva infatti una forcella più performante, diversa da quella morbida a steli rovesciati della Special e della GT. Il doppio freno a disco anteriore era composto, come alcune Sport, le S e le S3, da pinze Brembo.

Nel 1975, la Moto Guzzi presentò, in contemporanea alla S3, la T3. Quest’ultima seguiva la stessa filosofia costruttiva della S3: vantava come dotazione di serie la frenata integrale a tre dischi: la leva del freno anteriore comandava uno solo dei due dischi anteriori, mentre il pedale del freno posteriore, questa volta allocato sulla destra del propulsore, ripartiva la frenata tra il disco posteriore e l’altro anteriore. Per il resto era nient’altro che una T . Fortunata fu la versione California T3, anche se prodotta nel periodo della deludente, quanto a ricercatezza e robustezza dei materiali plastici ed elettrici, gestione De Tomaso; tranne che per la sua livrea nera con filetti bianchi questa moto aveva le stesse caratteristiche della T3 normale, compreso il sistema di frenata integrale. Insieme con la S, l’ S3 e la T, la T3 aveva, inoltre, la leva del cambio, sempre a cinque rapporti, sulla sinistra del blocco motore, ma ora con la prima in basso come le moto che ancora oggi sono in produzione.

GUIDARE LA V7: UNA VERA POESIA
Guidare oggi una V7 è come ballare con una bella ragazza. Proprio così, la nostra amata V7 la si può condurre paciosamente ad una velocità di crociera di circa 70/80 km/h, godendosi il panorama, oppure la si può lanciare ad alte velocità accompagnandola però sempre nelle curve; come nella danza, infatti, bisogna indicare alla propria dama i diversi passi da seguire, con lei si deve mostrarle la giusta traiettoria. L’affiatamento che si può avere con questa affascinante maxi è simile a quello che si crea spesso tra uomo ed animale: infatti, alcuni mezzi storici e tra questi vi è sicuramente anche la V7, possiedono un’anima. I due carburatori palpitano, mentre i possenti cilindri riscaldano e proteggono le gambe del centauro; il suono, perché solo così si può definire ciò che si sente stando alla guida della moto, è un ritmo antico, ricco di storia; la V7 riesce a portarci indietro nel tempo, a farci fare un tuffo in quel passato che fa cadere, ad ogni accelerata, la sua grigia patina per diventare sempre più il nostro presente.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

La storia delle Moto Guzzi V7 – I bufali di Mandello

La grande famiglia delle Moto Guzzi V7, con le sue quattro versioni pure: V7 700, V7 Special, V7 Sport e V7 850GT, l’allestimento California e le sue versioni derivate: S, S3, T, T3, è stata concepita tra il 1959 ed il 1975. In questi anni, precisamente alla fine del 1959, l’ingegner Giulio Cesare Carcano, storico progettista del Reparto Corse e colui che creò molte delle Moto Guzzi da Gran Premio, realizzò, in completa autonomia, un potente motore bicilindrico a V di 90°, che diventò l’invincibile capostipite di una lunghissima progenie di due cilindri, che ancora oggi ogni modello di Moto Guzzi sfoggia con grande baldanza. In questa sede cercheremo di raccontare al meglio tutta la storia di queste incredibili bicilindriche, dividendola in due puntate: una la state leggendo ora e, la seconda sarà online tra una settimana esatta.

La V7 fu presentata ufficialmente, nel 1965, al Salone del Ciclo e Motociclo di Milano, in un contesto commerciale non facile per la Moto Guzzi; la casa di Mandello sul Lario, infatti, risentì molto delle sfortunate operazioni economiche operate dai Parodi, storici proprietari del Marchio. In seguito, la situazione si risolleverà solamente grazie alla gestione SEIMM. Molto successo ebbe la V7, soprattutto nelle sue versioni Special e Sport: le sue doti erano infatti la grande affidabilità, la resistenza e la potenza. La V7 Special, in particolare, all’epoca aveva come rivali: la Bmw R75/5, sicuramente più blasonata, rifinita, ma meno tetragona della nostra moto nazionale; la Bsa Lightning, molto elegante, ma alquanto ed irrimediabilmente delicata, come tutte le britanniche. La V7 Sport, invece, vedeva come proprie antagoniste le nipponiche: Honda CB 750 Four, Kawasaki 750 H2, Suzuki 750 GT, molto veloci, scintillanti, accessoriate, ma, rispetto alla Moto Guzzi Sport, molto meno affidabili in generale e nelle curve in particolare: infatti la Sport era dotata di un telaio progettato e costruito dall’ingegner Lino Tonti – ex Benelli, Aermacchi, Bianchi e Gilera – che reagiva ottimamente anche alle alte velocità.

La V7, in listino fino al 1975, nelle sue varie versioni ed allestimenti, è oggi considerata un cult: una moto che fu progettata essenzialmente per durare nel tempo e per non sfigurare nemmeno rispetto alle moto più moderne. Nel giugno e nell’ottobre del 1969, sulla pista d’alta velocità di Monza, la V7 stabilì numerosi record mondiali delle classi 750 e 1000 cc; il motore era derivato da quello della Special e fu affidato alla bravura dei piloti Vittorio Brambilla, Alberto Pagani, Patrignani, Bertarelli, Tenconi, Trabalzini e Venturi. Questo bolide da competizione erogava 68 CV a 6500 giri, con compressione di 9,6:1; i carburatori erano i leggendari Dell’Orto SSI da 38 mm; il cambio rimaneva di serie a 4 velocità, con rapporto modificato alla coppia finale. Per poter aumentare la velocità di punta la moto fu alleggerita e, togliendo parecchi accessori, arrivò a pesare solamente 158 Kg, compresa la carena in vetroresina ed il capiente serbatoio in lega leggera da 29 litri. I risultati raggiunti furono i 100 Km alla media di 218,426 Km/h, l’Ora a 217,040 Km/h ed i 1000 Km a 205,932 Km/h. Visti i record raggiunti dai due prototipi e viste inoltre le numerose richieste della clientela sportiva, la Moto Guzzi lanciò sul mercato, nel 1971, la prima versione di serie della V7 Sport, montata a mano presso il Reparto esperienze Moto Guzzi. La moto sfoggiava un telaio in cromo-molibdeno rosso, livrea verde metallizzata, con parafanghi cromati: era bellissima, sportiva e soprattutto molto potente e veloce.

1965: LA V7 700
Questa motocicletta era dotata di un motore semplificato rispetto al prototipo del bicilindrico di Carcano, che originariamente avrebbe dovuto avere un uso puramente automobilistico. Tale massiccio motore, pesante 92 Kg compreso di blocco trasmissione, era dotato di un unico albero a camme al centro della V dei due cilindri; la distribuzione era ad aste e bilancieri, molto robusta e duratura e l’albero motore in acciaio in un unico pezzo. I due imponenti cilindri erano in lega leggera ed avevano una particolarità, apparsa per la prima volta in ambito motociclistico: le canne cromate. Le valvole erano inclinate di 70°, i due carburatori Dell’Orto SSI da 29 mm e l’accensione a spinterogeno. La frizione era a doppio disco a secco ed il cambio a quattro rapporti azionato da una leva a bilanciere sulla destra del propulsore, la trasmissione finale, invece, ad albero cardanico.

I collaudi del prototipo della V7 700 iniziarono nel 1964. Lo scheletro di tal modello primordiale era un telaio a doppia culla chiusa in tubi d’acciaio, forcella anteriore teleidraulica a steli rovesciati e forcellone posteriore oscillante per mezzo di un doppio ammortizzatore idraulico a molla esterna cromata regolabile su 3 posizioni, che la rendevano sicuramente molto morbida e confortevole; i freni a tamburo misuravano 220 mm ed avevano la doppia camma anteriore e la singola posteriore. Il peso della V7, 230 Kg, era decisamente elevato rispetto alla media delle altre motociclette, ma ciò faceva intendere quanto questo mezzo fosse robusto e soprattutto affidabile, soprattutto se si pensa che la sua velocità di punta toccava i 160 Km/h.

1969: LA V7 SPECIAL
La V7 700 rimase in produzione fino al 1969 quando passò il testimone alla celeberrima V7 Special: sicuramente il modello più rappresentativo negli anni in cui la Moto Guzzi passò alla gestione SEIMM. Fu proprio la motocicletta che servì per rilanciare il Marchio italiano dopo la già accennata crisi interna. La Special venne progettata da Lino Tonti e dal Reparto esperienze con motore di 757,4 cc e le differenze rispetto alla 700 cc non furono copiose, ma significative. Sicuramente le più lampanti sono quelle cromatiche: la V7 Special aveva, infatti, una sola livrea bianca con il dorso del serbatoio nero, i filetti rossi e le svasature cromate del serbatoio – ora di forma diversa data la maggiore capacità – all’altezza delle ginocchia; una delle più importanti differenze, se non la più importante, a parte l’aumento di cilindrata, consisteva nei carburatori che erano sempre Dell’Orto, ma VHB a valvola piatta da 29 mm muniti di leva dell’aria. Altri miglioramenti, visto anche l’incremento della potenza, furono: l’adozione di un rinforzo del telaio nella zona del cannotto di sterzo e l’irrigidimento della forcella, sicuramente più prestazionale e sicura nel misto. La strumentazione era sicuramente più completa, perché dotata anche di un contagiri, del quale la 700 era mancante; mentre il motorino di avviamento si azionava non più girando solamente la chiave nel cruscotto, ma spostandola solo per creare contatto elettrico, dovendo poi comunque premere il pulsante della messa in moto, sito sulla destra del manubrio in posizione molto riparata, ma molto agevole per il fortunato centauro.

Gli accessori forniti dalla Casa Madre erano molteplici: il grande cupolone in vetroresina in tinta con il colore della moto, che la rendeva sicuramente più imponente di quanto già non fosse; il paracolpi posteriore cromato, utilissimo al passeggero per poggiarvi i piedi, sia per questioni di sicurezza in caso di incidente; le borse laterali di due tipi, entrambe in ferro complete del loro telaio cromato di fissaggio alla moto, relativamente capienti ed infine, per le versioni militari, la sirena. La Special era definita anche mucca, per via del colore della livrea che ricordava le mucche di razza Frisona bianche e nere anch’esse. La facilità di guida era una delle peculiarità della mucca di Mandello, il comfort e la maneggevolezza erano doti che le venivano direttamente dalla sella molto ampia e dalle sospensioni soffici, che avevano però il grande limite delle curve, ma solo se affrontate con imperizia o con guida molto sportiva a velocità elevata. Quando si guidava su una Special sembrava di essere seduti su un comodo motore che, possente, poteva soddisfare in ogni situazione, anche nelle asperità delle strade malmesse. Per la prima volta la Moto Guzzi riuscì ad esportare, proprio a seguito di molteplici richieste civili e commesse militari, questa solidissima e veloce motocicletta, denominata però Ambassador e California, fino a Los Angeles – dov’era utilizzata dalla polizia – passando da alcune Nazioni europee. Era una vera maximoto da granturismo, utile, pratica ed indistruttibile, capace di macinare migliaia di chilometri.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

Honda CB500 Four – In medio stat virtus

La scintillante Honda CB 500 Four comparve sul mercato nella primavera del 1971 e fu subito esportata in tutta Europa e negli U.S.A. dove ebbe molto successo: gli statunitensi, infatti, ne apprezzavano molto le copiose cromature che ricordavano loro le Harley-Davidson, ma a differenza di queste, le Honda CB 500 erano dotate di un’innata leggiadria ed eleganza, che alle motociclette di Milwaukee decisamente mancavano.
La nuova pluricilindrica nata della “famiglia Four” non voleva essere una copia in piccolo della veloce e potente sua sorella maggiore, la riuscitissima CB 750 Four, quanto invece una motocicletta completamente nuova, diversa dalla 750 tranne che per il numero dei cilindri e per il gentil sibilo del motore.

Dotata di soluzioni tecniche sofisticate che le regalavano comfort, prestazioni elevate rispetto alla cilindrata, una guidabilità ottima e una buona frenata, la bella 500 Four era molto classica, curata fin nei minimi dettagli ed apprezzata per la sua linea compatta e fluida, che suscitava molto interesse soprattutto tra i giovani rampolli di famiglie benestanti: ciò sicuramente bastava a compensare la differenza di prestazioni rispetto ai “maxi-mostri”, come venivano chiamate allora le moto veloci e potenti, due tempi e di pari cilindrata.
Tutta la moto era stata costruita attorno al motore, che all’epoca sembrava, insieme con quello della maggiore di casa Four, un’astronave per la sua forma nuova, per le copiose cromature ed inoltre perché era dotato di un’impostazione mai vista prima. Le finiture potevano dirsi perfette, nulla stonava, tutto era eccezionalmente proporzionato al grado di eleganza ed alla grandezza della moto. La stessa era dotata di uno straordinario equilibrio, senza alcuna pecca di rilievo. Riuscivano a balzare immediatamente alla vista solo due organi di questo corpo così curato: l’ampio e comodo sellone e il parafango posteriore largo, cromato e che, a richiesta, poteva esser dotato di un pratico paraspruzzi in plastica nera. Queste erano le parti più solide, oltre al propulsore, presenti sulla 500: una delle prime motociclette sulle quali la ricca dotazione era completata da un comodo lucchetto a scatto della sella, che si apriva con la stessa chiave dell’avviamento; dagli indicatori di direzione rarissimi, all’epoca, sulle altre moto di media e piccola cilindrata e da un praticissimo cruscottino, sito tra i due cavallotti di sterzo, sul quale facevano bella mostra quattro grandi e visibilissime spie luminose e colorate: quella degli abbaglianti, dell’olio, del folle e delle luci.

La manopola dell’acceleratore aveva un doppio cavo che serviva a comandare sia in apertura che in chiusura di gas quattro carburatori Keihin 627 B da 22 mm con galleggiante in resina inaffondabile, ognuno dei quali serviva un cilindro da 125 cc. I cilindri, a differenza della maxi-Honda dovevano, nella CB 500, dissipare sicuramente molto meno calore e proprio per tale motivo, le alette di raffreddamento erano più rade; la testa degli stessi si presentava chiaramente diversa da quella della CB 750 e ridotta nella sua mutata forma.
Il telaio era verniciato di nero, in tubi da 25,5 mm, irrobustito ed irrigidito dall’aggiunta di parti in lamiera stampata; la sua caratteristica di innata robustezza era comune alla “sorellona”, dotata anch’essa di uno “scheletro” che poteva esser paragonato ad una roccia per quanto si rivelava forte nelle situazioni più estreme.
Il motore era un quattro cilindri in linea inclinati di 4° sulla verticale, che erogava 50 cavalli a 9.000 giri/min; la distribuzione bialbero in testa era comandata da catena semplice centrale. Una grande differenza rispetto alla 750 cc fu, ancora, l’abolizione del serbatoio separato dell’olio, quindi l’adozione di un carter molto più alettato. L’albero a camme si muoveva su quattro supporti ricavati nella stessa fusione della testa, soluzione alquanto innovativa, che non faceva andar incontro a nessun tipo di inconveniente a patto che la lubrificazione fosse sempre corretta. Le valvole erano meno inclinate di quelle sia della sorella maggiore che della 450 cc, infatti nella nuova 500 cc, l’inclinazione di esse misurava 53°; i trafilaggi di olio erano fortunatamente quasi inesistenti.

La forcella era inclinata a 26°, uno di meno della 750, mentre l’avancorsa non fu ridotta e gli steli della forcella si presentavano in posizione più avanzata rispetto al cannotto di sterzo.
Il motore era allocato alquanto in alto nel telaio, ma gli ingegneri nipponici riuscirono a progettare quest’ultimo, considerando anche l’ingombro della distribuzione in testa, rendendolo compatto tanto in lunghezza (l’interasse misura 1 metro e 40 cm. circa), quanto in altezza. Elasticità: questa era la più importante peculiarità del propulsore: la ripresa, anche da bassissimi regimi era ottima per l’epoca ed addirittura, in quinta marcia, si poteva scendere alla “velocità” di 40 km/h senza avvertire strappi fastidiosi. La progressione tendeva alla perfezione ed il motore girava a quasi 10.000 giri. Il tiro della quadricilindrica però non era assolutamente paragonabile a quello di una Moto Guzzi “Nuovo Falcone”, tipico e sempiterno motociclo nazionale di fama mondiale. Intorno ai 3.500 giri il motore nipponico degenerava in una forte pigrizia, senza poter rispondere prontamente alle smanettate.

La catena di distribuzione era centrale con annesso tenditore automatico a lama d’acciaio, che aveva sostituito quello tradizionale a rotella con molla, dado e controdado; la trasmissione primaria, nella sorella 750 cc, era a catena doppia, mentre quella della prima 500 cc a catena tipo morse a sette elementi, che sicuramente garantiva un’intrinseca robustezza ed una piacevole silenziosità di funzionamento.
Il sibilo del motorino di avviamento e del motore, perché sempre di piacevole sibilo si tratta, erano decisamente gli stessi della 750 cc; l’avviamento, però, non rispondeva sempre ed immediatamente alla pressione dell’apposito pulsante sulla destra del manubrio: soprattutto a motore freddo era d’uopo insistere per qualche minuto con il parzializzatore dell’aria per poter ottenere un regolare funzionamento.
Il cambio era preciso e la prima marcia “entrava” in modo dolce, con un piccolo, praticamente impercettibile e quasi gustoso strappo finale. Gli intervalli delle marce erano decisamente regolari, senza alcun vuoto: ciò dava soddisfazione al pilota perché gli permetteva di arrivare progressivamente in accelerazione fino ai 100 km/h anche se, per raggiungere la velocità massima, bisognava che si fosse dotati di una generosa dose di pazienza. I rapporti erano parecchio lunghi ed ottimi per un uso non sportivo del mezzo. Detto in precedenza che qualunque rumore meccanico era simile o identico alla 750, un suono si differenziava: in quest’ultima infatti risultava molto meno acuto quello dello scarico.

Il freno anteriore, a comando idraulico, era fenomenale, rapportato chiaramente al tamburo posteriore e, rispetto a quello della 750, decisamente migliore: molto più morbido e con il grosso vantaggio di “mordere” forte anche a modeste velocità. Il freno posteriore a tamburo era brusco a freddo mentre, con l’uso, molto più rilassato e poco pronto, anche se tutto sommato era all’altezza della situazione. Pur impiegando i freni al massimo, questi non avevano alcun cedimento, sia nella guida cittadina che in quella prettamente sportiva. Fino al 1972, infatti, la Honda CB 500 era stata la moto con la migliore ed efficiente dotazione di freni sul mercato, in un’epoca nella quale proprio le giapponesi furono le prime ad esser dotate del freno a disco.

Era capace di regalare al fortunato centauro gradevoli sorprese tra le quali, ad esempio, la forma e la posizione del manubrio che gli permettevano di guidare la motocicletta anche ad alte velocità e di mantenere una postura raccolta con il busto verso il serbatoio, quindi molto aderente alla motocicletta.
Copiosa si presentava all’acquirente la dotazione degli attrezzi, contenuta in una vaschetta sotto la comoda sella: era completa ed il libretto uso e manutenzione risultava molto esauriente ma scritto in lingua inglese. Dietro la fiancatina di sinistra si trovavano invece ben protetti gli organi dell’impianto elettrico. Nel 1971 la bella Honda costava 1.119.000 Lire, immatricolazione esclusa.

Godibile nell’uso quotidiano, si dimostrava agile nel traffico urbano, tanto che sembrava una 125 cc, a differenza della CB 750 che risultava invece un po’ pesante nelle manovre cittadine e quindi meno agile. Il telaio della sorella minore era l’artefice nascosto di tutto ciò; la sua guida si poteva assaporare però anche nell’uso prettamente turistico, infatti, questa motocicletta si presentava maneggevolissima, leggera, tanto da potersi definire soffice, proprio dove la morbidezza era data soprattutto dalla sella e dalla forcella. Fuori città, quindi, su strade veloci e libere, si poteva facilmente far entrare in coppia il motore a 7.500 giri, abbondando nell’uso della frizione. Viaggiare in quinta a 9.000 giri significava superare i 180 km/h e questo per una 500 cc pesante poco più di 200 kg era un gran bel risultato. Riusciva ad affrontare i curvoni a oltre 150 all’ora senza che si presentassero ondeggiamenti, che obbligassero il centauro a tenere il busto più rialzato e dritto.

L’unico appunto degno negativamente di rilievo erano i consumi, infatti, l’elegante 500 dagli occhi a mandorla copriva una media di 13-14 km con un litro di benzina; diventava una più modesta, ma validissima alternativa alla più costosa, impegnativa e famosa Honda CB 750. Risultava leggera, bassa e maneggevole, tanto da poter essere cavalcata da motociclisti di statura media, quindi “domata” anche da una bella centaura, che riuscisse a puntare bene i piedi a terra; tale possibilità era estesa a pochissimi modelli di medio-alta cilindrata.
Alla prima serie era associata la sigla K1 e questa, negli anni successivi a quello della sua presentazione al pubblico, era rimasta tendenzialmente immutata: le uniche note di rilievo delle successive serie K2 e K3 si limitavano a modesti aggiornamenti principalmente estetici, come ad esempio: la forma degli strumenti, delle marmitte di scarico, degli indicatori di direzione, la differenza delle livree e l’aggiunta di un ulteriore attacco per il secondo freno a disco anteriore. L’ultima della fortunata serie era la CB 500 Four K, che avrebbe avuto cronologicamente la sigla K6, se la K4 e K5 fossero state però importate anche in Italia. La K fu la serie che assommava in sé più cambiamenti rispetto alle precedenti: le colorazioni, oltre al serbatoio, alla sella, agli strumenti, agli indicatori di direzione: anche la foggia e la dimensione delle marmitte erano mutati.
Ancora nuovi aggiornamenti condurranno ai modelli CB 550 Four e CB 650, che non riusciranno a mantenere lo stesso fascino delle precedenti e celeberrime “vere” Four e neanche a sopportare il confronto con le concorrenti di pari cilindrata. Purtroppo, ma è doveroso dirlo, con le K1, K2 e K3 si chiuse una vera e propria era, quella splendente delle prime e sempreverdi quadricilindriche Honda che, per di più, facevano venir in mente subito il mondo delle corse, le supersportive dell’ala dorata pilotate dal grande Hailwood, ma sempre dotate di quattro cilindri in linea, che con i loro quattro collettori cromati, finivano in altrettanti scarichi a tromba, quasi a voler sottolineare che da quei motori sarebbero sempre usciti, come fossero strumenti musicali, armoniosi suoni di vittorie.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

Kawasaki Z1 900 – L’indimenticabile Geisha

Settembre 1972, al Salone di Colonia arriva la Z1 900: la maxi più potente mai prodotta

La Z1 900 fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno, che portò gli appassionati delle moto dagli occhi a mandorla a preferire il fenomeno Kawasaki al posto di quello Honda, fino ad allora pressoché imbattuto, quanto a novità tecnologica e potenza. Quest’ultima ne rappresenterà la rivale storica, pur avendo una cilindrata più bassa.
I cavalli della nuovissima “astronave” quadricilindrica bialbero erano ben 82, associati ad un’ottima ciclistica. La sua fisionomia decisamente nuova, sportiva e nello stesso tempo elegante si mostrava filante grazie anche al suo particolare codino ed al terminale di scarico “quattro in quattro”. Fu prodotta in 115.000 unità, la maggior parte delle quali vendute negli U.S.A.

LA STORIA
Fino all’avvento della potente Z1, la Kawasaki era conosciuta ed apprezzata essenzialmente per la produzione di motociclette 2 tempi di piccola e media cilindrata, di buona potenza, ma di scarsa affidabilità ciclistica, visto che la 500 cc, ad esempio, è passata alla storia come: la “bara ambulante” o la “fabbrica delle vedove”.
Nell’autunno del 1968, dopo che la Casa di Tokyo rilevò la Meguro, una delle più antiche Case motociclistiche giapponesi specializzata nella costruzione di motori a 4 tempi e dopo che fu creato, all’interno dell’azienda, un gruppo di tecnici coordinato e diretto dal valente ingegner Gyoichi Inamura, cominciarono i lavori del nuovissimo progetto di una 4 cilindri 750 cc, che sarebbe servita a dare una “forte gomitata” alle maxi moto inglesi ed italiane, ma non riuscì a darla alla Honda, che la precedette in tempismo con la presentazione, al 14° Tokyo Motor Show, della Honda CB750.

Nel 1970 iniziarono i primi collaudi della nuova 900 prototipo, che riusciva a sfiorare i 225 Km/h con 95 CV di potenza. I modelli di serie, furono leggermente depotenziati rispetto al prototipo, proprio per garantire al pilota una maggior affidabilità di guida del mezzo: il celeberrimo “Testa nera”, infatti, era superato in potenza solamente dal suo stesso prototipo.
La Kawasaki Z1 900 è stata prodotta in 4 serie: la prima, del 1973, era conosciuta come “Testa nera” per la colorazione del motore ed era disponibile, o con livrea rosso/marrone metallizzato, o giallo canarino/marrone metallizzato; sui fianchetti, invece, era presente la scritta “Double Overhead Camshaft”; la seconda serie, 1974, aveva anche la spia dello stop all’interno del contagiri, il motore era di color alluminio e la grafica del serbatoio mutava, con strisce per tutta la sua lunghezza; la terza serie, 1975, era simile alla precedente, ma le scritte sui fianchetti erano più grandi, era proposta una nuova colorazione blu e marrone metallizzato ed il sistema di lubrificazione automatico per la catena di trasmissione finale venne eliminato, essendosi rivelato inutile in caso di pioggia; l’ultima serie, del 1976, venne dotata di serie del doppio disco anteriore, il motore depotenziato di 1 CV, per via dell’adozione dei carburatori da 26 mm, necessari per non oltrepassare i limiti dati dalle severe norme antinquinamento americane; la corona aveva 2 denti in meno ed i rapporti erano chiaramente allungati; le scritte presenti sui fianchetti indicavano solo il modello (Z 900), le spie di servizio della strumentazione diventavano verticali, il tappo del serbatoio venne dotato di serratura e le colorazioni furono incrementate da una nuova: verde e marrone scuro.

LA TECNICA
Il telaio era il classico doppia culla in tubi d’acciaio con rinforzi in lamiera stampata in prossimità del cannotto di sterzo e nella zona del perno del forcellone. Il basamento del motore, che riusciva a spingere la Z1 oltre il “muro” dei 200 Km/h, era sezionato orizzontalmente: il carter inferiore comprendeva il filtro e la pompa dell’olio. Il propulsore stesso era inoltre dotato del sistema “Positive Crankcase Ventilation” per il riciclo dei vapori dell’olio, che riduceva del 40% l’emissione dei gas tossici. I cilindri erano in lega leggera con canne riportate in ghisa, mentre le sedi delle valvole in metallo sinterizzato, proprio per utilizzare la benzina verde, già obbligatoria negli U.S.A. Dai primissimi anni Settanta del secolo passato, l’albero motore era composto da 9 parti e poggiava su 6 cuscinetti di banco. Per limitare l’ingombro trasversale del motore, i tecnici Kawasaki ricavarono l’ingranaggio della trasmissione primaria direttamente su uno dei volani dell’albero motore.

Quattro erano i carburatori, i classici Mikuni VM da 28 mm e l’avviamento elettrico o a pedale, la frizione multi disco in bagno d’olio ed il cambio a 5 rapporti con ingranaggi sempre in presa e comando sulla sinistra.
Il freno a disco anteriore era da 296 mm, dotato di pinza a singolo pistoncino, non proprio il massimo della funzionalità, ma poteva migliorarsi la sicurezza e la ciclistica della moto adottando un secondo disco come optional, che molte delle Case madri fornivano (come ad esempio il Kit che la Moto Guzzi forniva per la V7 Sport) per migliorare la frenata. Posteriormente la maxi Kawasaki aveva invece un tamburo monocamma da 200 mm.
Diversa era la misura dei cerchi e degli pneumatici: quello anteriore misurava 3,25×19″, mentre il posteriore 4,00×18″.
La linea aggressiva e slanciata, anche se il peso complessivo del mezzo misurava 230 kg, risultava molto elegante per via del parafango anteriore cromato e dalle varie altre cromature dei 4 collettori, degli scarichi e della minuteria.

COME SI COMPORTAVA
L’accattivante Z1 900, contrariamente alle precedenti 2 tempi Mach III e Mach IV, non deluse riguardo al suo comportamento dinamico: molto buone la stabilità e la tenuta di strada, toccava i 212 km/h effettivi ed era bruciante nella sua accelerazione sui 400 m: 12 secondi ed un decimo, la migliore mai realizzata prima da una moto di serie. Lasciava sbalorditi però la dolcezza del suo propulsore, la sua facilità di guida e la sua silenziosità. Senza contare l’estrema e rara comodità per una sport-turer.
Il suo bialbero era tetragono nel sopportare gli sforzi prolungati, la marcia cittadina, le tirate in pista ed il turismo in coppia a lungo raggio.
La distribuzione dei pesi e le quote di ciclistica erano di gran lunga migliori di quelle studiate per la Honda CB 750, tanto da permettere una maggiore maneggevolezza ed un’altrettanto maggiore precisione di traiettoria.

La vista frontale della moto metteva subito in evidenza il suo ampio manubrio “america”, che sicuramente non migliorava la guida alle alte velocità e l’ingombro del suo possente propulsore da quasi 1 litro. Antiestetici, ma obbligatori per la circolazione U.S.A., si presentavano gli indicatori di direzione anteriori e posteriori.
I piccoli difetti immancabili in una macchina costruita dall’uomo erano: la morbidezza delle sospensioni, comode per il turismo, ma non molto performanti per un uso prettamente sportivo: gli ammortizzatori posteriori, ad esempio, non erano all’altezza dei nostri Ceriani, Marzocchi o dei Girling; gli scarichi ed il cavalletto centrale toccavano irrimediabilmente se si esagerava nel piegare in curva; la frenata con un disco solo non era per nulla eccezionale. Quello che poteva gratificare invece uno “smanettone” dei primi anni Settanta dello scorso secolo erano gli pneumatici letteralmente “mangiati” dai moltissimi cavalli a sua disposizione, ma questa non era una nota da enumerarsi tra quelle positive per le sue tasche.

Il centauro è chinato sulla sua rombante moto dagli occhi a mandorla: è lei, la sua fedele Geisha dalla “Testa nera”, che lo ha sempre accompagnato ogni qualvolta un traguardo veniva tagliato, nella vita come nelle più importanti manifestazioni sportive.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

Triumph Bonneville T120 1958

Prese il nome proprio dal “Bonneville Speedway” , celebre circuito di prova per record di velocità, sito sull’omonimo lago salato, nello Utah, la Triumph Bonneville T120 firmata da Ed Turner.

UN PO’ DI STORIA
Era una motocicletta classica, un degno prodotto della Casa di Meriden. Bonneville era ed è sinonimo di leggenda, lunga ben 54 anni, che segue sempre lo stesso lungo filo conduttore: la produzione di modelli dalla eleganza innata e blasonata, senza disdegnare un tocco di sana sportività, che si trasformò in vera competizione quando la Triumph conquistò il record mondiale di velocità. Fu nel 1956, quando Johnny Allen toccò, con il siluro carenato a due ruote, i 345,100 km/h. Il motore di questo mostro dall’anima competitiva e vittoriosa, era proprio un bicilindrico; allo stesso modo, bicilindrico, si presentava il propulsore della T120.
“T” stava per Twin, due cilindri, mentre “120” indicava essenzialmente la velocità massima, in miglia orarie, alla quale poteva spingersi, con qualche piccola modifica, questo gioiello dal nome famoso. Fu presentata nel 1958 al Salone di Earls Court e rimase in produzione esattamente per 6 lustri e più della metà delle unità furono esportate negli Stati Uniti. Dal primo anno di produzione alla fine degli anni Sessanta, periodo aureo della Triumph, l’evoluzione della Bonnie si fece sentire con l’introduzione, di volta in volta, di migliorie di vario genere, ma essenzialmente per tener testa alla concorrenza.

LA TECNICA: BONNEVILLE T120 650
Svariate le doti possedute da questa british: stabilità, estrema maneggevolezza, leggerezza, unite ad una tenuta di strada molto buona ed in grado di superare in scatto, anche una moderna pari cilindrata.
Aveva due cilindri di modesta altezza, verticali, dai quali si diramavano scintillanti collettori che proseguivano fino a prender forma terminale a bottiglia. I tempi del suo potente propulsore erano quattro ed esso, anche se con qualche tipico trafilaggio e qualche leggera perdita d’olio, si avviava abbastanza facilmente “calciando”, una o massimo due volte, una pedivella posta sulla destra del blocco motore. La testa era in lega leggera con i suoi due coperchi delle punterie separati: uno anteriore per lo scarico e l’altro, posteriore, per l’aspirazione. I cilindri invece erano in ghisa, fusi in blocco e fissati al basamento con 8 prigionieri avvitati con dadi a stella particolari.

Sia davanti che dietro ai cilindri, si potevano notare gli astucci nei quali scorrevano le aste. Come tutte le “regine” inglesi che si rispettino, anche la raffinata “Miss” era famosa per gli ineluttabili trasudi d’olio tra i cilindri ed il basamento e tra questi ed i rispettivi cannocchiali. Fino al 1967, montava due carburatori Amal Monobloc 389/203 ed in seguito, invece, gli Amal Concentric 930 L/R. Entrambi i modelli, però, davano problemi di usura perché costruiti con la zama; quando la moto era fredda, occorreva “cicchettare” molto prima di avviarla; inoltre, era doveroso sincronizzare i due carburatori oltre a regolare la carburazione: non si doveva né far scaldare eccessivamente il motore, né tantomeno far diventare il suo moto irregolare ed evitare quindi i fastidiosi “strappi”. L’accensione era a ruttore Lucas 6CA con 4 contatti, sito dietro il piccolo coperchio sul carter di destra ed era da regolare ogni 10.000 km circa. Il bravo tecnico avrebbe sicuramente consigliato di montare però l’accensione elettronica Lucas Rita oppure Boyer Bransden, per non dover più effettuare la regolazione periodica.

Il freno anteriore era un grosso tamburo centrale da 200 mm a doppia camma, fine nella sua estetica e capace, se ben registrato, di rallentare in maniera discretamente efficace la motocicletta; mentre quello posteriore, sempre a tamburo centrale, era decisamente fiacco. Le leve freno risultavano comode e regolabili con il loro bracciale.
Splendidi ed eleganti erano gli strumenti, tutti e tre della “Smiths”, celeberrima marca di strumenti di precisione di cui erano dotati molti dei mezzi storici più eleganti e sportivi. Il contagiri era sito sulla sinistra ed il contamiglia ed il tachimetro sulla destra, entrambi montati a sbalzo tra il manubrio ed il faro; il terzo strumento, l’amperometro, era di diametro decisamente minore ed era incastonato, insieme a due spie luminose, della pressione olio e degli abbaglianti, ed all’interruttore delle luci a tre posizioni, sull’elegantissimo faro completamente cromato.

Sulla sinistra dello sterzo ed in posizione molto comoda per il centauro, vi era il blocchetto con il pulsante del clacson e il deviatore delle luci; sul lato destro del manubrio, che nella versione U.S.A. da esportazione era decisamente più rialzato, c’era il manettino dell’aria; il blocchetto per il contatto d’avviamento era posto sul supporto sinistro del faro, mentre quello del bloccasterzo, sempre sulla sinistra della moto, ma dietro la piastra della sua forcella. Quest’ultima, da 35 mm., risultava di discreta taratura e di buona qualità; mentre i due ammortizzatori posteriori erano gli ottimi Girling regolabili su tre diverse posizioni nel precarico molla.

COME SI COMPORTAVA
La cura era fondamentale: era molto delicata e bisognava trattarla con i guanti di velluto, affinchè lei potesse poi ricompensare il centauro delle sue attenzioni, dimostrandosi, all’occorrenza, un valido mezzo anche per le gite fuori porta e una tenera e fine compagna di viaggi indimenticabili. Il gusto di guidare una Bonneville storica si avvertiva quando la si sentiva vibrare senza sussulti, con il suo nobil suono di ferraglia.

Autore: Pier Paolo Fraddosio